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Il Ronzone di Casale, dalla polvere alla vita
La riqualificazione del quartiere del Ronzone, dove un tempo sorgeva la fabbrica Eternit, tra progetti e contrasti, tutt'ora presenti. Un esempio di trasfromazione di quartiere industriale in quartiere abitato o solo un sogno rimasto incompiuto?
La riqualificazione del quartiere del Ronzone, dove un tempo sorgeva la fabbrica Eternit, tra progetti e contrasti, tutt'ora presenti. Un esempio di trasfromazione di quartiere industriale in quartiere abitato o solo un sogno rimasto incompiuto?
Ci sono costruzioni innovative e grandi, esausti capannoni industriali; accanto, scorre un canale solcato da vecchi ponti dimenticati e passa una strada segnata da numerosi cantieri di restauro. A chi percorre, a piedi o in auto, via XX Settembre, si offre lo spettacolo di un progetto incompiuto: quello del Ronzone, il più ambizioso progetto di riqualifica urbana messo in atto a Casale negli ultimi dieci anni. Un piano che solleva grandi interrogativi: cosa distingue un ammasso di case da un comune? E cosa vuol dire essere una città?
Prima di rispondere a queste domande occorre sapere cos’era il Ronzone. E cosa può diventare.
Per ricostruirne il passato, bisogna immaginare uno scenario alla Charles Dickens: un quartiere operaio e industriale in stile ‘800. Casette piccole ai piedi di grandi industrie di cemento, che avevano fatto di Casale il più grande polo cementifero dell’Italia Unita. La chiamavano allora “la città bianca” per la polvere che, emessa dalle ciminiere, ricopriva la città. Venne, poi, altra polvere… L’Eternit, col suo sogno di un materiale eterno e impermeabile fatto di amianto e cemento: sempre lì, al Ronzone. Luogo di morte primario per quanti ci lavorarono e abitarono. Ancora qualche tempo, ed ecco la decadenza: sanitaria, economica e urbana. Stop alle industrie, stop ai soldi, stop alle polveri.
“Si poteva abbandonare un quartiere come quello? A poche centinaia di metri dal centro storico?” – si chiede Riccardo Coppo, a lungo sindaco e poi assessore della città – “La risposta è: no, non si poteva.”
Nacque così un progetto di riconversione, che oggi dà i suoi primi frutti. Demoliti gli stabilimenti (con qualche remora sulla possibilità di conservarne il ricordo), seppellita sotto metri di cemento la fabbrica dell’Eternit, si pensò alla ricostruzione. Con un parco della memoria, un asilo, un contorno di abitazioni pubbliche (edilizia sociale) e private. Oltre agli spazi pubblici da ripristinare e abbellire: “Si trattava di trasformare un quartiere industriale altamente contaminato in un quartiere residenziale ad elevata qualità urbana” – aggiunge ancora Coppo.
Qualche dato: anni 2002-2003, il Comune dopo aver acquisito lo stabilimento Eternit e aver avviato il processo di bonifica, capisce che la sfida non è alla portata delle proprie risorse e cerca di rientrare in un piano nazionale di trasformazione e bonifica delle aree industriali contaminate: il “Contratto di Quartiere”. Sotto la guida dell’assessore Gino Merlo, con la consulenza della Consulta Edilizia di Alessandria, viene presentato un progetto di livello eccellente e la città ottiene cinque milioni e ottocentomila euro di fondi pubblici, capaci di attirare ulteriori investimenti privati. Esso prevedeva: la riqualificazione degli spazi pubblici, cinque insediamenti edilizi, l’abbattimento dell’ex cementificio Bargero e la costruzioni di una scuola. Si aggiunsero poi altri progetti: il Parco sull’ex stabilimento Eternit (con fondi regionali) e il “Progetto Colore” sulle abitazioni di via XX Settembre.
Non tutto andò in porto. Ci furono rallentamenti operativi e ministeriali, ma anche la polemica a ridosso delle elezioni del 2009: l’allora opposizione di centrodestra sollevò durissime critiche sull’opportunità di insediare un asilo a pochi metri dall’ex “fucìna” dell’amianto, in una zona appena bonificata, e sulla necessità di nuove palazzine. Il 12 settembre scorso, però, il nuovo asilo è stato inaugurato – in un edificio in perfetta bio-architettura – dal nuovo sindaco di centrodestra Giorgio Demezzi.
Siamo andati a chiedere all’assessore all’urbanistica Ettore Bellingeri se si sono rivedute certe posizioni: “Io non ho cambiato idea” – spiega – “si tratta di un progetto a suo tempo notevole ed appropriato, ma non più adatto alla situazione dell’oggi”. In che senso? “Dall’anno del progetto, nel 2002, alla sua attuazione, i tempi sono mutati e le 250 unità abitative previste non trovano un mercato immobiliare adeguato. Così come l’asilo non solo comporta più costi ma è richiesto da meno bambini. Resto critico sull’attuazione di questo progetto, pur buono nella sua ideazione, ma per lo più inattuabile oggi”.
Sembra di essere di fronte a due posizioni: quella di un professionista che guarda al contingente dell’oggi, e quella di un professore che pensa all’ideale (Bellingeri è architetto, Coppo è stato insegnante ndr). Questo emerge anche da altre due affermazioni. Bellingeri: “Anche le polemiche sulle nuove aree commerciali (supermercati) previste in città sono infondate, visto che una volta approvato il passaggio da area produttiva ad area commerciale, è difficile impedire delle iniziative private. Noi abbiamo semplicemente attuato l’iter”. Coppo: “I piani regolatori sono insufficienti, perché indicano l’uso ma non assicurano la qualità progettuale e architettonica. Bisogna passare dai piani ai progetti. E quello del Ronzone era un esempio ”.
Se diverse restano le posizioni, si chiarisca allora l’obbiettivo: che città vogliamo abitare? Le città italiane hanno smesso di essere un modello esemplare, da quando è sorto il gap radicale tra i centri storici e le zone periferiche dove vive il grosso della popolazione: fatte di sterminate strade e di parcheggi, o di capannoni in mezzo alle risaie e di villette senza parchi e senza spazi pubblici. Se c’è un modo scorretto di progettare la città, esso è pensare ad edilizia isolata. Perché la città è uno spazio fatto per il cittadino e per le relazioni, insegna Renzo Piano. Essere una città, dunque, può voler dire indicare – nel rispetto delle libertà individuali – un progetto comune che indirizza gli sforzi di ciascuno e il tessuto urbano verso il futuro.
Troppa teoria? A visitare certe realtà del nord Europa, sembra di no. Ma anche a casa nostra, ci sono molti esempi: il porto antico di Genova, la città di Torino. Forse, in un futuro non lontano, anche il quartiere del Ronzone?
Prima di rispondere a queste domande occorre sapere cos’era il Ronzone. E cosa può diventare.
Per ricostruirne il passato, bisogna immaginare uno scenario alla Charles Dickens: un quartiere operaio e industriale in stile ‘800. Casette piccole ai piedi di grandi industrie di cemento, che avevano fatto di Casale il più grande polo cementifero dell’Italia Unita. La chiamavano allora “la città bianca” per la polvere che, emessa dalle ciminiere, ricopriva la città. Venne, poi, altra polvere… L’Eternit, col suo sogno di un materiale eterno e impermeabile fatto di amianto e cemento: sempre lì, al Ronzone. Luogo di morte primario per quanti ci lavorarono e abitarono. Ancora qualche tempo, ed ecco la decadenza: sanitaria, economica e urbana. Stop alle industrie, stop ai soldi, stop alle polveri.
“Si poteva abbandonare un quartiere come quello? A poche centinaia di metri dal centro storico?” – si chiede Riccardo Coppo, a lungo sindaco e poi assessore della città – “La risposta è: no, non si poteva.”
Nacque così un progetto di riconversione, che oggi dà i suoi primi frutti. Demoliti gli stabilimenti (con qualche remora sulla possibilità di conservarne il ricordo), seppellita sotto metri di cemento la fabbrica dell’Eternit, si pensò alla ricostruzione. Con un parco della memoria, un asilo, un contorno di abitazioni pubbliche (edilizia sociale) e private. Oltre agli spazi pubblici da ripristinare e abbellire: “Si trattava di trasformare un quartiere industriale altamente contaminato in un quartiere residenziale ad elevata qualità urbana” – aggiunge ancora Coppo.
Qualche dato: anni 2002-2003, il Comune dopo aver acquisito lo stabilimento Eternit e aver avviato il processo di bonifica, capisce che la sfida non è alla portata delle proprie risorse e cerca di rientrare in un piano nazionale di trasformazione e bonifica delle aree industriali contaminate: il “Contratto di Quartiere”. Sotto la guida dell’assessore Gino Merlo, con la consulenza della Consulta Edilizia di Alessandria, viene presentato un progetto di livello eccellente e la città ottiene cinque milioni e ottocentomila euro di fondi pubblici, capaci di attirare ulteriori investimenti privati. Esso prevedeva: la riqualificazione degli spazi pubblici, cinque insediamenti edilizi, l’abbattimento dell’ex cementificio Bargero e la costruzioni di una scuola. Si aggiunsero poi altri progetti: il Parco sull’ex stabilimento Eternit (con fondi regionali) e il “Progetto Colore” sulle abitazioni di via XX Settembre.
Non tutto andò in porto. Ci furono rallentamenti operativi e ministeriali, ma anche la polemica a ridosso delle elezioni del 2009: l’allora opposizione di centrodestra sollevò durissime critiche sull’opportunità di insediare un asilo a pochi metri dall’ex “fucìna” dell’amianto, in una zona appena bonificata, e sulla necessità di nuove palazzine. Il 12 settembre scorso, però, il nuovo asilo è stato inaugurato – in un edificio in perfetta bio-architettura – dal nuovo sindaco di centrodestra Giorgio Demezzi.
Siamo andati a chiedere all’assessore all’urbanistica Ettore Bellingeri se si sono rivedute certe posizioni: “Io non ho cambiato idea” – spiega – “si tratta di un progetto a suo tempo notevole ed appropriato, ma non più adatto alla situazione dell’oggi”. In che senso? “Dall’anno del progetto, nel 2002, alla sua attuazione, i tempi sono mutati e le 250 unità abitative previste non trovano un mercato immobiliare adeguato. Così come l’asilo non solo comporta più costi ma è richiesto da meno bambini. Resto critico sull’attuazione di questo progetto, pur buono nella sua ideazione, ma per lo più inattuabile oggi”.
Sembra di essere di fronte a due posizioni: quella di un professionista che guarda al contingente dell’oggi, e quella di un professore che pensa all’ideale (Bellingeri è architetto, Coppo è stato insegnante ndr). Questo emerge anche da altre due affermazioni. Bellingeri: “Anche le polemiche sulle nuove aree commerciali (supermercati) previste in città sono infondate, visto che una volta approvato il passaggio da area produttiva ad area commerciale, è difficile impedire delle iniziative private. Noi abbiamo semplicemente attuato l’iter”. Coppo: “I piani regolatori sono insufficienti, perché indicano l’uso ma non assicurano la qualità progettuale e architettonica. Bisogna passare dai piani ai progetti. E quello del Ronzone era un esempio ”.
Se diverse restano le posizioni, si chiarisca allora l’obbiettivo: che città vogliamo abitare? Le città italiane hanno smesso di essere un modello esemplare, da quando è sorto il gap radicale tra i centri storici e le zone periferiche dove vive il grosso della popolazione: fatte di sterminate strade e di parcheggi, o di capannoni in mezzo alle risaie e di villette senza parchi e senza spazi pubblici. Se c’è un modo scorretto di progettare la città, esso è pensare ad edilizia isolata. Perché la città è uno spazio fatto per il cittadino e per le relazioni, insegna Renzo Piano. Essere una città, dunque, può voler dire indicare – nel rispetto delle libertà individuali – un progetto comune che indirizza gli sforzi di ciascuno e il tessuto urbano verso il futuro.
Troppa teoria? A visitare certe realtà del nord Europa, sembra di no. Ma anche a casa nostra, ci sono molti esempi: il porto antico di Genova, la città di Torino. Forse, in un futuro non lontano, anche il quartiere del Ronzone?