A New York con Woody Allen, in un giorno di pioggia
Con la consueta ironia, il regista racconta, in filigrana, la sua personale inclinazione verso certe condizioni meteorologiche e soprattutto l’amore incondizionato per la città
CINEMA – In un’intervista rilasciata a “El País”, un paio di mesi fa, per parlare del suo ultimo film Un giorno di pioggia a New York, alla domanda sulle ragioni per cui preferisca la pioggia al sole, Woody Allen ha risposto: «Perché la luce è migliore. E perché credo che in quei giorni la gente pensi più dalla sua interiorità, dalla sua anima. La mia è un po’ triste… e se apro la finestra al mattino e c’è il sole, mi disturba. Al contrario, trovo che le città siano bellissime sotto la pioggia. Parigi, Londra, New York, San Sebastián sono già bellissime, ma se piove sono magiche. […] Nei miei film le cose importanti succedono quasi sempre quando piove. Anche se poi ci si lamenta che costa caro girare con la pioggia; soprattutto perché quando voglio girare con la pioggia, quasi mai piove e dobbiamo farla artificialmente. Io a volte chiedo a Dio che faccia qualcosa, invece nulla, nemmeno una nuvola».
Con la consueta ironia, l’84enne regista newyorkese racconta, in filigrana, non soltanto la sua personale inclinazione verso certe condizioni meteorologiche, ma anche e soprattutto l’amore incondizionato per una città, New York, che gli ha dato i natali (il primo dicembre 1935) e che ha splendidamente cantato in svariati film, da Manhattan (1979) a Hannah e le sue sorelle (1989) e Tutti dicono I love you (1996, in cui, oltre alla Grande Mela, mette in scena le altre sue due città del cuore, Venezia e Parigi), sino ad arrivare a La ruota delle meraviglie (2017).
Un giorno di pioggia a New York è l’ennesima dichiarazione sentimentale – condita di tiepida ironia, di nostalgia, di atmosfere traslucide, malinconiche, sognanti, alla Francis Scott Fitzgerald de Il grande Gatsby (non a caso, questo è anche il nome dello svagato studente protagonista del film) – di Allen per un luogo, oltre che geografico, dell’anima.
New York diventa così, per Woody e per il suo alter-ego Gatsby Welles (Timothée Chalamet) contemporaneamente una realtà, una stagione, una memoria conturbante e deludente al tempo stesso, il passato perduto e il futuro ancora da costruire, nell’acuta consapevolezza del finire delle cose, del trascorrere del tempo, nella memoria dolce di ciò che non è più.
Smarrito dentro un piovosissimo (appunto) e labirintico fine settimana a New York, Gatsby percorre la città in cui è nato, con l’intento di farne conoscere alla fidanzata Ashleigh (Elle Fanning) i posti preferiti, gli angoli più caratteristici, quelli che conservano il ricordo non solo dell’infanzia, ma anche dei decenni mitici e ruggenti del jazz, dei locali eleganti e fumosi, frequentati dal bel mondo dell’arte, dagli scrittori, dai musicisti. Troverà, al loro posto, una memoria azzerata, la discrepanza fra realtà e immaginario, e ancora contrattempi, imprevisti che lo allontaneranno da Ashley, a sua volta impegnata a riconoscere la città vera dietro quella sognata e fatta di glamour, lusso, prestigiose occasioni professionali (vedi i molteplici incontri, tutti deludenti e fallimentari, con Roland Pollard- Liev Schreiber, il suo regista preferito, che deve intervistare per il giornale del college; con lo sceneggiatore Ted Davidoff-Jude Law; e, infine, con il divo Francisco Vega-Diego Luna). L’acre ironia del regista verso il mondo dello star-system è ferocemente implicita.
Gatsby, dal canto suo, tenta qualche maldestro approccio con Shannon (Selena Gomez), sorella di un ex fidanzata, finisce sul set di un film, ha un duro confronto (espresso con una magnifica sequenza di campi-controcampi) con la propria madre, canta e suona al pianoforte, emblematicamente, Everything Happens to Me.
Alla fine, entrambi si renderanno conto di aver attraversato in lungo e in largo uno spazio interiore, magico e fallimentare al tempo stesso, perché profondamente diverso da ciò che ciascuno di noi sperimenta nel quotidiano.
«La nostalgia, questa trappola», ha concluso Woody Allen nell’intervista a “El País”. «Camus la descrive come una trappola seduttrice e io ci casco costantemente, soprattutto quando parlo di New York. Quando ero bambino era una grande città e direi che lo è stata fino alla fine degli anni 50. Poi ha cominciato a modernizzarsi in un modo che non mi piace molto. Posti nuovi e brutti occupano il posto di luoghi antichi e deliziosi, negozi di dolciumi che spariscono, il traffico che ha cominciato a diventare caotico e, dopo un certo tempo, molta delinquenza. […] Insomma, New York non era così. […] La finzione è molto meglio della realtà, non c’è paragone. […] Si può fare in modo che i personaggi siano tristi o allegri, si può mettere una bella musica, pensi all’effetto che fa in My Fair Lady; invece nella realtà non si controlla nulla. La protagonista di La rosa purpurea del Cairo è molto più contenta nella finzione che nella realtà. Purtroppo, non si può vivere nella finzione o si impazzirebbe. Bisogna vivere nella vita reale, che è tragica. Se potessi, vivrei in un musical di Fred Astaire. Tutti sono belli e divertenti, tutti bevono champagne, […] tutti ballano; è fantastico».
Un giorno di pioggia a New York (A Rainy Day in New York)
Regia: Woody Allen
Origine: Usa, 2017-2019, 92′
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Vittorio Storaro
Montaggio: Alisa Lepselter
Cast: Timothée Chalamet, Selena Gomez, Liev Schreiber, Jude Law, Elle Fanning, Diego Luna
Produzione: Gravier Productions, Perdido Productions
Distribuzione: Lucky Red