“Richard Jewell”: la legge morale dentro di me
Clint Eastwood dà vita a una pellicola potente, meticolosa nel proseguire la sua categorica e ormai ultradecennale riflessione sulla contrapposizione fra un concetto di Stato assente e un umanissimo teorema di storie di coraggio individuale
CINEMA – Richard Jewell è un film straordinario, un’opera in cui il grande vecchio Clint Eastwood, alla soglia dei novant’anni, raggiunge un altissimo livello di scrittura cinematografica ricostruendo la vicenda umana – legata all’attentato del 27 luglio 1996 al Centennial Park di Atlanta, che in pieno svolgimento delle Olimpiadi provocò il ferimento di un centinaio di persone – di un uomo che di stra-ordinario non aveva proprio nulla, ma che diventò un eroe controverso e discusso agli occhi dell’opinione pubblica per quello che riuscì a fare in una manciata di secondi.
Richard Jewell (una meravigliosa prima interpretazione da protagonista di Paul Walter Hauser, già visto in Tonya di Craig Gillespie, 2017 e BlackKklansman di Spike Lee, 2018, infrangibile maschera di ingenuità e idealismo), appunto, un altro emblematico ritratto eastwoodiano di uomo comune, senza particolari qualità o talenti se non quelli riconducibili a un certosino senso del dovere, declinato in maniera così radicale e assoluta da somigliare a una rara forma di ottusità.
Qui la finzione travasa nella pura cronaca dell’ennesimo pezzo di storia americana che Eastwood restituisce con grande rigore e precisione nei dettagli, portando avanti instancabile il suo discorso sul prevalere della legge morale del singolo individuo sull’assurda cecità e corruzione di un establishment a stelle e strisce (incarnato dall’agente dell’Fbi Tom Shaw-Jon Hamm) in troppo facile combutta con un giornalismo d’accatto e politicamente scorretto (la giornalista Kathy Scruggs-Olivia Wilde). Lo rimarca, non a caso, al suo assistito Watson Bryan, l’ex avvocato rampante che si assume il rischio della difesa di Jewell (interpretato con magistrale nonchalance da Sam Rockwell): «Quelli non sono lo Stato».
Viene ricordata, in questo modo, nella limpidezza e classicità dello stile narrativo acquisito da Eastwood nel corso degli anni la clamorosa e dolorosa odissea del Richard Jewell ex agente di sicurezza di un campus in Georgia (licenziato per eccesso di zelo nello svolgimento dei suoi compiti), che – in forze nell’estate del 1997 tra le squadre dell’ordine all’AT&T Pavilion di Atlanta nel corso delle Olimpiadi – riuscì a evitare una vera e propria carneficina fra gli spettatori di un concerto, segnalando alla polizia la presenza di uno zaino sospetto che si scoprì contenere un pacco bomba.
Il trentenne Jewell dalla personalità semplice e manipolabile, amante della caccia e aspirante a una carriera da poliziotto per essere in grado di contribuire al mantenimento dell’ordine e alla protezione delle persone (in primis, la madre Barbara – detta Bobi – con la quale viveva: le presta la sua fisicità intensa nel film Kathy Bates, candidata all’Oscar per questo ruolo), fu inizialmente acclamato come un eroe: pochi mesi dopo la sua “santificazione”, però, a partire da un articolo dell’Atlanta Journal-Constitution a firma Kathy Scruggs che avallava un sospetto dell’agente Hamm dell’Fbi, in cerca di un capro espiatorio, venne messo alla gogna di fronte all’opinione pubblica internazionale come primo indiziato per l’attentato del 27 luglio.
La persecuzione mediatica fu terribile soprattutto per le ricadute sulla vita personale, sia di Jewell che della madre, stalkerizzati giorno e notte, in casa e fuori, da uno stuolo di agenti federali e di cronisti famelici: l’accusa decadde presto, per mancanza di prove, e qualche anno più tardi si fece avanti il vero attentatore, Eric Rudolph.
Completamente riabilitato, Richard Jewell, purtroppo, non visse a lungo, colpito da un attacco cardiaco letale nel 2007, all’età di soli 44 anni.
Partendo da un copione scritto da Billy Ray (lo sceneggiatore di Hunger Games di Gary Ross, 2012) sulla fonte dell’articolo di Marie Brenner American Nightmare: The Ballad of Richard Jewell, pubblicato sulla rivista “Vanity Fair” nel 1997, Clint Eastwood dà vita a una pellicola potente, meticolosa nel proseguire la sua categorica e ormai ultradecennale riflessione sulla contrapposizione fra un concetto di Stato assente e un umanissimo teorema di storie di coraggio individuale, girate tra il 2014 e il 2018 (dal conflittuale American Sniper a Sully e Ore 15:17 – Attacco al treno), le sole in grado di cambiare il corso della Storia.
Nel limpido esercizio del suo umanesimo e dell’approccio all’arte cinematografica, il regista sembra voler far proprio l’epitaffio kantiano: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».
Del resto, già nel lontano 1987 aveva avuto modo di dichiarare: «Ho sempre avuto dell’ammirazione per i grandi narratori di storie, ma per molto tempo non ne ho fatto parte. Da bambino ero piuttosto introverso e avevo un approccio molto visivo alle cose. In classe, un semplice fruscio di foglie fuori dalla finestra era in grado di catapultarmi nei viaggi più inverosimili. È per questo motivo che penso di aver avuto molta fortuna a passare la maggior parte della mia vita da adulto a fare film, luoghi ultimi della visione e del suono. Ecco l’unica ragione che mi spinge a fare del cinema, forma d’arte che ho intenzione di praticare per il resto della mia vita».
Richard Jewell
Regia: Clint Eastwood
Origine: Usa, 2019, 129′
Sceneggiatura: Billy Ray
Fotografia: Yves Bélanger
Montaggio: Joel Cox
Musica: Arturo Sandoval
Cast: Sam Rockwell, Paul Walter Hauser, Olivia Wilde, Mitchell Hoog, Mike Pniewski, Jon Hamm, Kathy Bates
Produzione: Warner Bros., The Malpaso Company, Misher Films, Appian Way, 75 Year Plan Productions
Distribuzione: Warner Bros. Pictures