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    “Judy”:
    Renée Zellweger
    Generic, Home, Spettacoli
    Barbara Rossi  
    16 Febbraio 2020
    ore
    10:19 Logo Newsguard
    Recensione

    “Judy”: le nuvole nere oltre l’arcobaleno

    La 92esima edizione degli Oscar ha visto, tra gli altri, il trionfo del biopic del regista e sceneggiatore inglese Rupert Goold sulla figura di Judy Garland, interpretata da una Renée Zellweger in stato di grazia

    CINEMA – Da qualche parte sopra l’arcobaleno ci sono i sogni che hai osato fare, oh perché, perché non posso io? (Somewhere Over the Rainbow, Harold Arlen, E.Y. Harburg, 1939)

    Non si è ancora spenta l’eco delle polemiche, dei pettegolezzi suscitati ogni anno dal conferimento dei premi Oscar, nella dorata kermesse hollywoodiana andata in scena appena qualche notte fa. La 92esima edizione ha visto, tra gli altri, il trionfo di Judy, il biopic (tratto dall’opera teatrale di Peter Quilter End of the Rainbow) del regista e sceneggiatore inglese Rupert Goold sulla figura di Judy Garland, interpretata da una Renée Zellweger in stato di grazia, al suo secondo Oscar come miglior attrice non protagonista dopo quello vinto nel 2004 per Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella.

    Il film ricostruisce – in maniera narrativamente fluida e ineccepibile dal punto di vista biografico, ma senza particolare mordente – i primi anni e quelli finali della lunghissima carriera artistica dell’attrice americana, nata Frances Ethel Gumm nel 1922, terza figlia di due artisti del vaudeville.

    Le frequenti digressioni temporali per mezzo di ben collocati flashback permettono allo spettatore di passare senza soluzione di continuità dalla fine degli anni Trenta, sul set hollywoodiano del celeberrimo Il Mago di Oz di Victor Fleming che le valse appena diciottenne l’Oscar giovanile, al limitare degli anni Sessanta, quando Judy, per provare a risanare la sua disastrosa condizione economica, accetta di esibirsi in una serie di concerti al Talk of the Town di Londra.

    Tra queste due date emblematiche scorre l’esistenza travagliata di una delle dive più straordinarie di tutti i tempi, in perenne oscillazione tra paradiso e inferno, abissi e altezze.

    A confronto, la piccola Judy sedicenne, sovrastata in altezza e ingombrante carisma – nella scena iniziale del film – dal magnate della MGM Louis B. Mayer, che le promette l’ingresso in un sogno («Tu hai una cosa che le altre ragazze della tua età non hanno, la voce. Resta qua e diventerai famosa»), spingendola, invece, nell’incubo senza fine delle diete forzate, dell’assunzione di pillole per dimagrire, degli orari di lavoro massacranti; e la Judy quarantasettenne, star in irrimediabile crisi, vittima di quel passato che l’ha resa dipendente dall’alcol, dalle droghe che attenuano la sua ansia e le concedono la libertà di abbandonarsi al sonno.

    In quello scorcio di 1968, nella fase finale della sua vita, la Garland ha alle spalle quattro matrimoni falliti, tre figli (due dei quali, Joey e Lorna, la accompagnano tristemente in un’esibizione da soli centocinquanta dollari, che non le permette neppure il soggiorno in un hotel), una carriera scintillante e un talento vocale clamoroso, annegati negli attacchi depressivi, nelle ubriacature e nel senso di solitudine.

    Judy se ne andrà il 22 giugno 1969, sei mesi dopo l’ultima esibizione pubblica, a pezzi sia nel fisico che a livello psichico: ma il regista Goold le dedica, in memoria, gli ultimi istanti gloriosi, raccontando i trionfanti concerti londinesi, il rinnovato calore del pubblico, l’amore tenace di una coppia di omosessuali (la Garland era diventata una vera e propria icona della comunità gay), fedeli ammiratori con i quali – per una volta – trascorre una serata lontana dai fantasmi, la magica, ultima riproposizione del suo cavallo di battaglia, quel Somewhere Over the Rainbow che rappresenta per lei il miglior antidoto contro l’incalzare del tempo, la sofferenza e l’oblio.

    Renée Zellweger rende con estrema efficacia (sino ai limiti, un po’ fastidiosi, della tipizzazione) la fisicità sofferta, la plasticità del viso, l’umbratilità di una diva oramai sul viale del tramonto, ma ancora ricca di slanci, di sentimenti e passioni: del resto – una tra gli innumerevoli esempi di quel misterioso parallelismo arte-vita che spesso qualifica l’espressione creativa – l’attrice che ha conquistato successo e popolarità con il personaggio di Bridget Jones sa bene cosa significhi sacrificare il proprio corpo sull’altare della verosimiglianza e del realismo.

    «Lo ammetto – ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa a Manhattan – in Texas non sono cresciuta con una grande cultura cinematografica, non avevamo accesso alla televisione dove vivevo, perciò conoscevo solo Il mago di Oz e Tutti insieme appassionatamente. Ho imparato molte cose da Judy Garland: il coraggio, la tenacia, la necessità di andare avanti. Ogni volta che impersoni qualcuno porti con te sempre qualcosa a fine giornata, ma con Judy ho trovato la mia voce. Sul set facevo questi esercizi quotidianamente per allenare le corde vocali, dalla nota più bassa a quella più alta. Non avrei mai pensato ci fosse una componente emotiva legata a questa esperienza. Quando qualcosa ti colpisce emotivamente ti viene il nodo alla gola perciò per usare quel muscolo devi per forza rilassarti e snodare quel groppo. Ora ho imparato a farlo anche nella vita…».

    Judy
    Regia: Rupert Goold
    Origine: Regno Unito, 2019, 118’
    Sceneggiatura: Tom Edge
    Fotografia: Ole Bratt Birkeland
    Montaggio: Melanie Oliver
    Musica: Gabriel Yared

    Cast: Rufus Sewell, Royce Pierreson, Richard Cordery, Renée Zellweger, Michael Gambon, Lewin Lloyd, Jessie Buckley, Finn Wittrock, Darci Shaw, Daniel Cerqueira, Bella Ramsey, Andy Nyman

    Produzione: Bbc Films, Calamity Films, Pathé
    Distribuzione: Notorious Pictures

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