La Resistenza e il cinema: dal dopoguerra agli anni Ottanta
Una selezione di pellicole resistenziali è fruibile gratuitamente in streaming attraverso le principali piattaforme: Il sole sorge ancora, Achtung! Banditi, L’Agnese va a morire su YouTube, I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini su Rai Play
CINEMA – «Fare i conti col passato va bene, ma prima o poi bisogna chiuderli, no?» (I piccoli maestri)
Chiudere i conti col passato: legittimo desiderio, insopprimibile necessità dei singoli come delle diverse forme di organizzazione sociale e civile in cui, nel corso della storia, l’uomo ha incanalato e strutturato la propria spinta vitale.
Per quanto riguarda il fenomeno della Resistenza italiana – quei venti mesi compresi tra la firma dell’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane alleate, l’8 settembre 1943, e, all’incirca, l’inizio del maggio 1945 – chiudere o, più modestamente, fare i conti con ciò che è stato, sul piano storico, sociale, culturale e umano, è impresa ardua, per la sua estrema complessità e per la difficoltà, comune alla maggior parte degli apparati politico-ideologici del Paese via via succedutisi (e a dispetto della loro eterogeneità) a guardare a quell’esperienza con occhio non inquinato.
Di conseguenza, anche la rappresentazione cinematografica del periodo resistenziale ha attraversato, analogamente al giudizio storico-critico su di esso, fasi alterne e spesso in contraddizione fra loro, a partire dall’immediato dopoguerra sino ai giorni nostri.
La riflessione filmica sulla Resistenza sembra affondare le proprie radici nel terreno già fervido e variegato del cinema neorealista, anch’esso espressione di differenti istanze ideologiche e culturali: ciò che accomuna pellicole anche molto eterogenee fra loro è, innanzitutto, l’esplicita volontà di distacco – sia sul piano contenutistico che estetico – dalla cinematografia precedente, espressione del regime, propagandistica o velleitariamente d’evasione, a favore di narrazioni che esplicitassero la presa di coscienza, l’azione di riscatto, soprattutto a livello popolare, dalle maglie oppressive del governo fascista.
Qualche cosa di simile avveniva, fatte salve le debite differenze, nella società italiana che si apprestava alla ricostruzione, sostando in equilibrio precario sulle macerie ancora fumanti della guerra. Emblematiche, in questo contesto, si rivelano – come sappiamo – opere quali Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), di Roberto Rossellini, quest’ultima definita da Morando Morandini nella versione 2013 dell’omonimo dizionario “un potente affresco collettivo”.
Il limite di questa operazione – comune alla maggior parte degli altri film “resistenziali” di questa fase e, ancor più, di quella successiva – sta nella rappresentazione della lotta partigiana nella sua valenza esclusiva di reazione contro l’oppressore straniero. Di là da venire il riconoscimento di vera e propria guerra civile (difficile da metabolizzare ancora oggi, nell’attualità delle nostre vicende nazionali), l’immagine della Resistenza è quella del conflitto di un popolo aspirante alla libertà, in cui l’amalgama e il livellamento tra opposte fazioni politiche e ideologiche sono massimi. Rare eccezioni, in questo senso, vengono da film come Il sole sorge ancora – 1946 – di Aldo Vergano (che nel realismo documentario della narrazione compone un affresco anche sociale dell’Italia occupata) e Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani (1951), che – a suo modo – conclude, con il coraggio di una descrizione lucida e antiretorica della gioventù partigiana, la prima fase della cinematografia resistenziale, prima che la cosiddetta “normalizzazione”, operata dal governo centrista nel decennio appena iniziato, riconduca la vicenda storica nell’alveo inoffensivo di retoriche celebrazioni nazionalistiche.
Il film di Lizzani si presenta quindi come ultimo prodotto di una cinematografia che, iniziata con Roma città aperta, era stata sostenuta da una grande tensione emotiva. È in fondo una sorta di bilancio di quanto è stato fatto, una rimeditazione sul tipo di approccio, senza, però, aperture sul futuro.
In sintonia con le forme e i contenuti della narrazione proposta dal film di Lizzani troviamo, fra i rarissimi esempi degli anni Cinquanta, Gli sbandati di Francesco Maselli (1955): per entrambi è possibile istituire un parallelo con espressioni della cinematografia resistenziale più recente, in modo particolare con I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), e – seppure in misura minore – con Il partigiano Johnny di Guido Chiesa (2000), principalmente per lo sguardo attento a cogliere la confusione e le incertezze esistenziali della generazione che scelse di entrare nei quadri della Resistenza.
Per il resto, il decennio dei Cinquanta, diviso a livello politico tra tentativi di “normalizzazione” e feroci campagne diffamatorie – condotte anche a livello giudiziario – nei confronti di un movimento partigiano accusato di essersi macchiato di colpe eguali, se non maggiori, di quelle fasciste (in un evidente tentativo di delegittimazione che prosegue anche nel corso degli anni Sessanta, sino alla svolta liberatoria del ’68 e all’avvento dei governi di sinistra in Italia alla metà dei Settanta), non contribuisce in maniera intensiva all’elaborazione di nuove immagini filmiche sulla Resistenza, se escludiamo il filone, sempre vivo e consapevole, del documentario.
Il 1960 si apre, invece, con tre opere (Era notte a Roma di Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini e Tutti a casa di Luigi Comencini, introdotte, l’anno precedente, da Il generale della Rovere, sempre di Rossellini, e Kapò di Gillo Pontecorvo) che sembrano voler riportare al centro della scena e dell’interesse nazionale la lotta antifascista in tutte le sue forme, in una rinnovata ansia, soprattutto della nuova generazione che si appresta a vivere attivamente l’imminente trasformazione sessantottesca, di conoscere e giudicare al di fuori di ogni retorica.
Un’ansia che accomunerà – come vedremo – la generazione post-Sessantotto (e gli autori cinematografici cresciuti nel fervore di quel periodo) e quella odierna, dei figli (e, in qualche caso, addirittura dei nipoti), nell’ambito di un ripensamento generale dell’esperienza del fascismo, della guerra e di ciò che ne scaturì.
Così scorrono gli anni Sessanta cinematografici, ricchi di titoli e di tentativi di raccontare la Resistenza in forme nuove, o attraverso punti di vista inediti: pensiamo, solo per fare due esempi, a Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961), che indaga l’esperienza dei soldati repubblichini, ponendoli al centro della storia (analogamente a quanto farà, nel 1984, Marco Tullio Giordana con Notti e nebbie, dal romanzo di Carlo Castellaneta); e a Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), che accomuna nell’analisi Resistenza e lotta armata, sullo sfondo di un centro urbano come Venezia.
Per comprendere appieno l’ultimo sguardo cinematografico sul fenomeno resistenziale – a partire dalla fine degli anni Novanta ad anni recenti – è necessario partire proprio dalla volontà di rielaborazione storica, dall’evoluzione del pensiero, dai tentativi di ampliamento dell’orizzonte critico che hanno avuto inizio fra gli anni Sessanta e i successivi Settanta: da film come Il sospetto di Francesco Maselli (1975), e L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo (1976, dal romanzo della partigiana Renata Viganò: la storia della contadina di Comacchio che diventa una staffetta partigiana, la stessa ambientazione, introducono una rilettura della Resistenza dalla parte degli umili che Giorgio Diritti riproporrà nel suo L’uomo che verrà, 2009).
Gli anni Ottanta cinematografici non faranno che sviluppare ulteriormente questo processo, ma – in parallelo – fungeranno da specchio rifrangente un atteggiamento del tutto opposto: ossia la tendenza, in seno agli apparati governativi e, più genericamente, alla società dell’epoca, ad un’ambigua proposta di “pacificazione” tra oppressi e oppressori, vincitori e vinti. Questa falsificazione, insieme al tentativo di ridurre la Resistenza a semplice azione di guerriglia tra due opposte fazioni, condurrà – nel corso degli anni Ottanta e oltre – a un vero e proprio “revisionismo mediatico”, come afferma lo storico Claudio Vercelli: il quale si esprimerà, con l’affermazione del predominio del piccolo schermo su quello cinematografico, in una nutrita serie di film televisivi riabilitanti la figura di Mussolini (da Claretta di Squitieri, 1984, a Io e il duce di Negrin, 1985, aventi entrambi come lontano punto di riferimento Mussolini, ultimo atto di Lizzani, 1974).
A tali strettoie creative sfugge, nei primi anni Ottanta, un film di rara bellezza, La notte di San Lorenzo dei Taviani (1982), in cui già si ritrova quella dimensione memoriale che caratterizzerà, di lì a pochi anni, sia I nostri anni di Daniele Gaglianone (2001) che il già citato L’uomo che verrà.
Una selezione di pellicole resistenziali appartenenti al periodo citato è fruibile gratuitamente in streaming attraverso le principali piattaforme: nello specifico, Il sole sorge ancora, Achtung! Banditi, L’Agnese va a morire su YouTube; I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini (1968) su Rai Play.