Michel Piccoli: l’ironia al potere
Se n’è andato uno degli attori più rappresentativi del cinema contemporaneo, tra i pochi in grado di misurarsi, in oltre duecentotrenta film, con i generi più disparati - dalla commedia al dramma, dal poliziesco alle opere d’impegno politico e sociale
CINEMA – Mi piacciono il suo senso dell’umorismo, la sua generosità discreta, il suo granello di follia e il rispetto che non mi dimostra mai. (Louis Buñuel)
Se n’è andato uno degli attori più rappresentativi del cinema contemporaneo: tra i pochi in grado di misurarsi, in oltre duecentotrenta film, con i generi più disparati – dalla commedia al dramma, dal poliziesco alle opere d’impegno politico e sociale – divenendo maschera ma senza abdicare alla propria innata eleganza e a un’autoironia spiccata.
Michel Piccoli, nato a Parigi il 27 dicembre 1925 da genitori con inclinazioni artistiche (il padre violinista, la madre pianista), ha incarnato le aberrazioni di una borghesia in evidente e irreversibile crisi d’identità, specialmente nel corso del sodalizio con Marco Ferreri (vedi, tra gli altri, l’industriale omicida nel sarcastico Dillinger è morto, 1969, il produttore televisivo divorziato e in crisi ne La grande abbuffata, 1973, e il caricaturale Buffalo Bill in Non toccare la donna bianca, 1974). «Il testo mi aveva sedotto, e anche lui, con quel suo sguardo singolare», ha raccontato, alcuni anni più tardi, lo stesso Piccoli. «Ero stregato. Addirittura innamorato… A quell’epoca ero un attore che interpretava personaggi di seduttori molto “puliti” e l’idea di cimentarmi con qualcosa di diverso mi ha tentato».
Anche il lavoro (tra il 1956 e il 1975) con un maestro del cinema come Luis Buñuel, geniale e irriverente, gli permette di proseguire con la caratterizzazione di personaggi appartenenti a un ceto sociale in evidente stato di asfissia, da La selva dei dannati (1956) e Il diario di una cameriera (1964) a Bella di giorno (1967), La via lattea (1968) e Il fascino discreto della borghesia (1972), in cui interpreta il ruolo di un ministro, immerso nell’assurdità della trama bunueliana.
Anche i registi amici Claude Chabrol e Francis Girod offrono all’attore francese l’occasione di cimentarsi addirittura in ruoli “neri” e da omicida, rispettivamente in L’amico di famiglia, 1973, e Trio infernale, 1974. Ulteriori ritratti di borghese glieli propone Manoel de Oliveira in Party (1996) e Specchio magico (2005), oltre che Claude Sautet in L’amante, 1970, e Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre, 1974.
Se il debutto cinematografico di Piccoli risale – appena ventenne – al 1945, con una particina in Silenziosa minaccia di Christian-Jacque, è l’incontro con gli autori della Nouvelle Vague e, in particolare, con Jean-Luc Godard che gli assicura una varietà di ruoli di altissimo livello, oltre al riconoscimento delle proprie capacità artistiche. Da Alain Resnais (La guerra è finita, 1966, e Vous n’avez encore rien vu, 2012) ad Agnès Varda (Les créatures, 1966, Cento e una notte, 1995, dedicato alla storia del cinema), da Jacques Demy (Una camera in città, 1982) a Jacques Rivette (La bella scontrosa, 1991, sul tema della creazione artistica), la galleria delle figure maschili incarnate da Piccoli è tra le più varie e umanamente sfaccettate.
Con Il disprezzo di Jean-Luc Godard (1963) – tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia – in cui veste i panni di Paul Javal, sceneggiatore facile ai compromessi, incaricato di riscrivere la sceneggiatura di un film sull’”Odissea” diretto da Fritz Lang, per Piccoli arriva il ruolo più convincente e di maggior successo della carriera.
Il cinema italiano ha instaurato con l’attore un rapporto privilegiato, già a partire dai primi anni Sessanta: Le vergini di Roma di Carlo Ludovico Bragaglia e Vittorio Cottafavi risale al 1961, mentre notevole è l’interpretazione di Piccoli nei panni dell’ispettore Ginko in Diabolik di Mario Bava, 1968. L’anno successivo è la volta di Vittorio De Seta con L’invitata, 1969, mentre Elio Petri lo impiega nelle vesti di Giulio Andreotti in Todo modo, 1976; per Salto nel vuoto di Marco Bellocchio Piccoli viene premiato nel 1980 a Cannes come miglior attore. Di seguito – nel 1982 – lavora con Ettore Scola (Il mondo nuovo) e Liliana Cavani (Oltre la porta): nel 1996 in Compagna di viaggio di Peter Del Monte, a fianco di Asia Argento, tratteggia il delicato ritratto di un uomo anziano smarrito nei labirinti della sua memoria e nel 2012 viene ricompensato con il David di Donatello per il ruolo del Papa in crisi esistenziale e di vocazione in Habemus Papam di Nanni Moretti.
Piccoli ha recitato anche con Hitchcock in Topaz (1969), pellicola dalle incerte fortune, e nel corso del tempo ha sperimentato le cinematografie più remote, da quella egiziana (Adieu Bonaparte, 1985, e L’emigrante, 1994, di Youssef Chahine) a quella libanese (L’Homme voilé di Maroun Bagdadi 1987) e cilena (Quel giorno di Raoul Ruiz, 2003). Negli ultimi anni si è cimentato con le opere della generazione più giovane di registi, come Tout va bien, on s’en va, 2000, di Claude Mouriéras o Rosso sangue, 1986, e Holy Motors, 2012, di Leos Carax.
Michel Piccoli si è rivelato un artista a tutto tondo: non solo attore di cinema ma anche di teatro (insieme ad autori del calibro, per fare solo qualche esempio, di Peter Brook, Luc Bondy, Patrice Chéreau), produttore negli anni Ottanta e regista di tre film a partire dalla fine degli anni Novanta: Alors voilà (1997), premio Filmcritica Bastone bianco al Festival di Venezia, La Plage noire (2001) e C’est pas tout à fait la vie dont j’avais rêvé (2005).
Il mestiere dell’attore l’ha raccontato anche in due libri autobiografici: Dialogues égoïstes (1976) e J’ai vécu dans mes rêves (2015).
In un’intervista risalente al 2005 Piccoli sosteneva che «Quello dell’attore è un lavoro molto profondo perché devi stabilire una sorta di intimità segreta sia con l’autore che con il regista, come nel caso di Ta main dans la mienne, in cui mi confronto con due grandi come Anton Cechov e Peter Brook. Il mestiere dell’attore comporta un continuo e stretto confronto con i propri partners, con il regista e con il pubblico. Il teatro è come una bottega, e noi attori siamo come quei negozianti che cercano, nel migliore dei modi, di vendere la loro merce. C’è un’unica differenza, però: a teatro la seduzione è molto più pericolosa. Se l’attore diventa troppo seduttore può perdere la propria anima».