“L’hotel degli amori smarriti”: la danza del passato
Un’intelligente e originale riflessione sull’inesorabile scorrere del tempo e sulle sue occasionali deflagrazioni, capaci di mettere a dura prova gli uomini con i suoi impietosi interrogativi
CINEMA – È lieve, arioso e variegato come i movimenti di una danza L’hotel degli amori smarriti, ultimo film del regista francese Christophe Honoré (già autore tra il 2009 e il 2011 di Non ma fille, tu n’iras pas danser, Homme au bain, Les Bien-aimés, tutti con Chiara Mastroianni, qui nei panni della docente universitaria Maria: l’attrice è stata premiata a Cannes 2019 nella sezione “Un certain regard”).
Anche sceneggiatore, drammaturgo e autore di romanzi per ragazzi in cui affronta temi delicati in appartenenti al mondo adulto, frequentatore abituale di Cannes (vi ha partecipato nel 2008, con l’intenso Plaire, aimer et courir vit), Honoré si cimenta in una commedia leggera ma priva di banalità, dall’afflato intimista.
L’hotel degli amori smarriti (Chambre 212 – il titolo originale francese – è forse meno attraente rispetto a quello italiano, tuttavia fa riferimento con maggiore efficacia allo spazio che per lo più fa da sfondo a questa storia) si configura come un’intelligente e originale riflessione – alla maniera di Woody Allen ma anche di Ingmar Bergman e del miglior cinema francese, da Lelouch a Resnais – sull’inesorabile scorrere del tempo e sulle sue occasionali deflagrazioni, capaci di mettere a dura prova gli uomini (e le donne come Maria) con i suoi impietosi interrogativi.
«Ricordo una frase di Proust in cui sosteneva che gli scrittori che ammiriamo non possono servirci da guida, perché dentro di noi abbiamo comunque qualcosa di forte che segna il nostro senso dell’orientamento», racconta Honoré durante un’intervista per il sito “The Hot Corn”. «Aveva ragione. Non è facile deviare dal nostro percorso e in realtà non è nemmeno così facile farsi influenzare. Scrivendo e girando L’hotel degli amori smarriti ho guardato molti film diversi, pellicole di Sacha Guitry, Ingmar Bergman, Woody Allen e ognuno di loro mi ha permesso di dare un’identità a un nuovo film. Ma è un mio film».
Inutile per chiunque – date le premesse – tentare di rispondere a una domanda basilare: “Che ne sarebbe stato di me se…?”. Il tempo è irreversibile, lineare, inalterabile. Eppure, è proprio questo l’interrogativo che si pone Maria (la Mastroianni), quarantenne professoressa di «storia della giustizia e del processo penale» (come rammenta lei stessa all’incombente “fiamma” dello studente universitario con cui ha una relazione), ancora attraente e piuttosto chiusa in una visione pragmatica dell’esistenza («due più due fa quattro, fine!»). Ed è proprio il cinema l’unico strumento, la formidabile macchina del tempo in grado di consentire a Maria di interrogarsi sui mille rivoli in cui si è disperso il suo passato, senza – tuttavia – imporle alcuna conclusione prestabilita.
Le arti visive in genere – nell’accezione che gli attribuiva il teorico della Nouvelle Vague e critico dei “Cahiers du cinéma” André Bazin – sono contraddistinte dal “complesso della mummia”: così come gli antichi egizi imbalsamavano i loro defunti per garantirgli la conservazione imperitura del corpo, oltre all’immortalità dello spirito, così il cinema può evocare e mantenere in vita ciò che non è più, nello spazio al di fuori del tempo delimitato dall’inquadratura.
Nel luogo delle meraviglie simboleggiato dalla camera 212 di un hotel a Montparnasse (non a caso, il quartiere parigino degli artisti) dove si è rifugiata in seguito a una lite con il marito Richard (non a caso interpretato da Benjamin Biolay, ex marito di Chiara Mastroianni), mentre fuori nevica, Maria può arrivare a far coincidere periodi e contesti diversi della sua vita, al di là della coerenza anagrafica.
Sfilano davanti ai suoi occhi, dunque, parlandole, con sguardi e voci protesi fra passato e futuro, dapprima un Richard giovane e appassionato, poi Irène (Camille Cottin), suo amore giovanile, e la madre, la nonna di Maria, tutti i suoi fuggevoli amori, perfino un’espressione estremamente eccentrica della sua coscienza: tutti fraternamente immersi in un bagno sonoro che accosta senza soluzione di continuità Aznavour alla Vanoni.
Nella camera 212, in quel limbo temporaneo sospeso sul presente, Maria trova finalmente il coraggio di guardare a sé e alla propria vita dall’esterno rispetto al mondo cacofonico del suo quotidiano. La dolcezza infinita è quella del guardarsi vivere, di recuperare frammenti di memoria, emozioni e sentimenti lontani: la malinconia è quella del tempo, che non permette a nulla e a nessuno di durare.
Ammette Honoré: «In realtà non avevo alcuna fretta di mettermi a scrivere un film, anzi, mi sentivo libero, gongolavo nel non avere alcuna idea. Poi, una sera, mi sono ritrovato sul divano davanti ad un vecchio film con Cary Grant: L’orribile verità. Lui e Irene Dunne interpretavano una coppia perfetta, che si amava anche dopo il divorzio. Così ho iniziato a chiedermi da quanto tempo fossi in una relazione sentimentale e quanti registi scrivessero ancora di rapporti e conversazioni coniugali. Quella stessa notte ho iniziato a scrivere L’hotel degli amori smarriti…».
L’hotel degli amori smarriti (Chambre 212)
Regia: Christophe Honoré
Origine: Francia, 2019, 86′
Sceneggiatura: Christophe Honoré
Fotografia: Rémy Chevrin
Montaggio: Chantal Hymans
Cast: Chiara Mastroianni, Marie-Christine Adam, Harrison Arevalo, Benjamin Biolay, Carole Bouquet, Camille Cottin, Vincent Lacoste, Stéphane Roger
Produzione: Film Pelleas
Distribuzione: Officine Ubu