Sean Connery: la leggenda di un uomo straordinario
«Sono cresciuto idolatrando Sean Connery. Una leggenda sullo schermo e fuori». (Hugh Jackman)
CINEMA – Sean Connery, il poliedrico attore scozzese dal grande fascino e dalla complessa personalità divistica (spesso – con riferimento soprattutto alla seconda parte della sua carriera – in netto contrasto rispetto ai canoni del divismo classico), che ha contribuito con il proprio carisma e fisicità alla caratterizzazione della prima immagine del mito cinematografico di James Bond, se ne è andato serenamente, nel sonno, mentre era alle Bahamas, dopo aver tagliato lo scorso 25 agosto il ragguardevole traguardo dei novant’anni.
La famiglia di Roger Moore, altro mito cinematografico bondiano, scomparso nel 2017, si è unita al dolore collettivo per questa perdita: «È infinitamente triste sentire la notizia che Sir Sean Connery è morto. Lui e Roger erano amici da molti decenni e Roger ha sempre sostenuto che Sean fosse il miglior James Bond di sempre».
Allo stesso modo Daniel Craig, ultimo Bond del cinema in ordine di tempo, ha commentato: «Sir Sean Connery sarà ricordato come Bond e per molto altro ancora. Ha segnato un’epoca e uno stile. Continuerà a influenzare attori e registi allo stesso modo negli anni a venire. Il mio pensiero va alla sua famiglia e ai suoi cari. Ovunque sia, spero che ci sia un campo da golf».
In omaggio a Sean Connery riproponiamo, dunque, il racconto della carriera del grande attore, ripercorsa in occasione dei suoi novant’anni.
Del carismatico agente segreto – tradotto sul grande schermo dai racconti di I.L. Fleming all’inizio degli anni Sessanta – Connery ebbe a dire, durante un’intervista a “L’Europeo” nel marzo 1965: «L’offerta di Bond era la fortuna e la fortuna capita una volta sola. E quando capita bisogna prenderla al volo, poi tenerla ben stretta. Mi avrebbero confuso con Bond? Mi sarei adirato di questo? Per un attore, per uno scrittore, esiste sempre il pericolo di essere scambiato con un suo personaggio: quanta gente continua a scrivere a Sherlock Holmes ben sapendo che non esiste e non è mai esistito?».
Claire Bloom, sua partner in “Anna Karenina”, sceneggiato prodotto dalla BBC nel 1961, per la regia di Rudolph Cartier, sosteneva: «Dietro ogni decisione professionale di Connery c’è il suo carattere, che è un miscuglio di sicurezza e fragilità e che cerca sempre quello che definisce “l’umore delle cose”. Di ogni suo ritratto cinematografico Sean persegue il flusso interiore e il movimento drammatico della scena […] D’altro canto, la combinazione di carisma e sex appeal di Sean è sempre stata molto forte […]». A questo giudizio fa eco quello dello stesso Connery che – raccontando della sua esperienza durante la lavorazione de “Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud, il film tratto nel 1986 dall’omonimo e celebre romanzo di Umberto Eco – ha modo di spiegare: «Non sono certo maniacale nella preparazione di un ruolo, ma alcuni elementi di ricerca per me sono fondamentali. Per Guglielmo di Baskerville sono stato in un monastero: mi interessava scoprire il ritmo dei religiosi che vivono in questi luoghi e il loro tempo diviso tra storia, ideologia, filosofia, logica, fede e anche mistero. Sono un solitario nella messa a punto dei “miei uomini”, ma certamente ciò che perseguo sempre è la cadenza del ruolo, che accompagno dall’inizio alla fine».
Connery si configura, nel panorama divistico internazionale, come un attore atipico, che ha saputo minimizzare quelle caratteristiche, fisiche e caratteriali (la bellezza giovanile e degli anni maturi, il sex appeal, l’apparente sicurezza), che rischiavano, a un certo punto della sua carriera, di costituire un intoppo verso un ulteriore salto di qualità (vedi il deciso allontanamento dal carismatico personaggio di James Bond – cui l’attore scozzese garantisce ancora maggior fascino – avvenuto nel 1971, quando Connery si rende conto non solo della degenerazione mediatica cui sta andando incontro questa figura, ma anche del progressivo oscuramento delle doti attoriali che rivestirne i panni comporta).
Negli anni Ottanta, dopo aver deciso di tornare momentaneamente al ruolo che gli ha regalato maggior successo e popolarità accettando di girare “Never say never again” (“Mai dire mai”, 1983), di Irving Kershner, Sean spiega i motivi che lo hanno spinto a quella scelta: «Una scelta legata a una sorta di training personale. Volevo di nuovo cimentarmi con una parte molto fisica e volevo, soprattutto, contrapporre il mio Bond maturo ai film basati solo sul sangue artificiale degli effetti speciali. Bond aveva partorito molti fratellastri che non mi piacevano e che esercitavano la loro licenza di uccidere con eccessiva facilità, come in certi fumetti. […] In quegli anni Bond stava andando verso la sagra delle stupefacenti e spesso sciocche invenzioni tecnologiche. Il mondo era invaso dai mitra degli emuli di Rambo. Non era certo mia intenzione essere un attore scozzese con i muscoli alla Schwarzenegger».
Connery non ha mai fatto mistero di provare una certa antipatia, sedimentata nel tempo, per il personaggio di Bond: «Devo a James Bond la mia popolarità d’attore e la mia indipendenza finanziaria. Non ho mai perso di vista ciò che nel suo carattere mi ha reso celebre, dandomi la possibilità di trovare altri ruoli. Non ho mai amato in James Bond o, meglio, nei film in cui l’ho impersonato, il tempo che essi mi prendevano. […] Io invece volevo assolutamente altre cose. Non dimentichiamo che, quando ho iniziato a interpretare 007 avevo trent’anni. E non volevo assolutamente perdere tempo».
La tendenza al crepuscolarismo degli ultimi ruoli rivestiti da Connery (non solo il suo Bond ‘maturo’, ma anche il Robin Hood invecchiato e stanco del film “Robin e Marian” di Richard Lester, 1976, o l’altrettanto decadente maggiore inglese Robert Dapes di “Cuba” – dello stesso regista – 1979; l’attempato monaco Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”, di Jean-Jacques Annaud; l’anziano padre di Indiana Jones ne “Indiana Jones e l’ultima crociata” di Steven Spielberg, 1989; re Riccardo Cuor di Leone in “Robin Hood principe dei ladri” di Kevin Reynolds, 1991; re Artù ne “Il primo cavaliere” di Jerry Zucker, 1995; in ultimo, il maturo scrittore misantropo di “Scoprendo Forrester” di Gus Van Sant, 2000) sembra voler fare da contraltare proprio a quel ‘bondismo’ eccessivo ed estremo che lo stesso attore ha contribuito a diffondere.
I personaggi che hanno segnato la seconda parte della carriera di Connery – l’ex eroe di Sherwood ma anche, ad esempio, il capo berbero Mulay Ahmad al-Raysuni de “Il vento e il leone”, di John Milius, 1975 – e perfino alcuni fra quelli che sono stati proposti in parallelo al colosso James Bond, come il Mark Rutland dell’hitchcockiano “Marnie” (1964), risultano estremamente sfaccettati, molto più complessi caratterialmente e frutto di una recitazione più interiorizzata.
L’ultima caratterizzazione di Connery, anche nel ruolo di produttore del film, è stata – non a caso, nel 2003 – quella del vecchio cacciatore Allan Quatermain in “La leggenda degli uomini straordinari” di Stephen Norrington.
Le ultime caratterizzazioni ricollegano l’attore ai suoi inizi teatrali e cinematografici, quando si cimentava con i grandi personaggi della tragedia greca, dei drammi shakespeariani e pirandelliani, dei romanzi russi, come il conte Vronskij nella citata versione televisiva di “Anna Karenina” di Tolstoj: nel corso della sua lunga carriera lavora con registi come Sidney Lumet (“La collina del disonore”, 1965), Fred Zinnemann – nel suo ultimo film “Cinque giorni, un’estate”, 1982 – oltre al rapporto speciale che intrattiene con Terence Young, il quale – dopo averlo scritturato ne “Il bandito dell’Epiro” (1957) – lo sceglie nel 1962 per il ruolo del micidiale ed elegante agente 007 al servizio di Sua Maestà, dirigendolo in ben tre film del ciclo: “Agente 007 – Licenza di uccidere” (1962), “Agente 007 – Dalla Russia con amore” (1963) e “Agente 007, Thunderball – Operazione tuono” (1965).
Tra Connery e Richard Lester, in particolare, la stima e l’amicizia permarranno inalterate anche a molti anni di distanza dalle esperienze vissute sui set delle due pellicole che unirono le rispettive professionalità: l’attore di Edimburgo e il regista di Philadelphia – cantore della Londra beat e swing al passaggio degli anni Sessanta – appartengono, in fondo, alla medesima generazione.
Fred Zinnemann non a caso fa risalire l’inizio dell’allontanamento dell’attore dal ruolo dell’agente segreto inglese proprio a partire dal film di Lester, oltre che dal proprio: «Sean è stato perfetto e credo che il pubblico abbia cominciato ad accettarlo nel suo aspetto fisico lontano da 007 anche per via del nostro film e, prima ancora, grazie a “Robin e Marian”» (la citazione da Zinneman, come le altre in questo articolo, è tratta dal volume di Giovanna Grassi Sean Connery, Gremese, Roma, 1996; N.d.A.)
L’Oscar vinto da Connery nel 1988 come attore non protagonista nel film di Brian De Palma “The untouchables – Gli intoccabili” (1987), nei panni del poliziotto irlandese Jimmy Malone, il più anziano e riflessivo della squadra speciale che lotta per la cattura di Al Capone, così come il successo tardivo ottenuto interpretando una spia britannica prigioniera ad Alcatraz da oltre trent’anni, ma anche l’unico individuo che sia riuscito a fuggirne, in “The Rock” di Michael Bay (1996); o il doppiaggio, nel 2005, del personaggio di James Bond nel videogioco “Dalla Russia con amore”, autoironico ‘divertissement’, si qualificano sia come metacitazioni sia come ennesimi tentativi di distacco e allontanamento da una figura letterario-cinematografica oramai sovraesposta, tanto da risultare iperrealista.
Sottolineava Connery qualche anno fa: «Una cosa è certa: ho preso parte a molti film e qualcuno l’ho dimenticato, qualche altro vorrei dimenticarlo! L’importante, in questa professione, è rinnovarsi, cercare sempre nuovi modi per esprimersi, per comunicare. […] Non ho insegnamenti da offrire ai giovani tranne quello che rinnovarsi significa dare al cinema sempre il meglio di se stessi».
Poliedrico, curioso, energico, a tratti ironico: aggettivi che si attagliano sia al Connery interprete che alla persona. Mai parole si sono rivelate più adatte nell’esprimere l’essenza del suo essere divo, attore, personaggio e, infine, uomo, di quelle sintetizzate dall’Academy in occasione dell’assegnazione dell’Oscar come miglior interprete non protagonista ne “Gli intoccabili”: «Per alcuni l’attore doveva essere e restare soltanto James Bond. Per tutti è riuscito a essere Sean Connery».