La Grande Guerra e il suo seguito a Valenza
VALENZA – Come in tutto il Paese, anche a Valenza, emergono posizioni contrastanti e molte ambiguità sull’intervento nel primo conflitto mondiale. I socialisti devoti sostengono la causa neutralista, mentre i liberali dell’Associazione Costituzionale Democratica sono a favore di una discesa in campo a fianco dell’intesa contro l’Austria. Ma, com’è facile immaginare, la popolazione locale manifesta in più occasioni la sua repulsione al conflitto; il quale sarà una bufera di piombo e di sangue che durerà 43 interminabili mesi (24-5-1915 / 4-11-1918).
Nel maggio 1915 i costituzionalisti-liberali valenzani (una mucillagine di schieramento politico) annunciano la sospensione del loro giornale “L’Azione” per obbedire all’ordine, alla disciplina e al silenzio “sino al giorno della vittoria”. Ma per un giornale che se ne va un altro è da poco partorito: il 2-1-1915 è uscito il periodico cattolico “Corriere del Collegio di Valenza”.
Nella seduta del 15-5-1915, il sindaco socialista Luciano Oliva (rieletto un anno prima) informa, in Consiglio comunale, di essere stato chiamato alle armi, non essendosi avvalso della facoltà di esonero: “Un privilegio meschino”. Il consigliere Ferdinando Abbiati loda la decisione in nome della minoranza liberale. Oliva ritorna però celermente (causa malattia) a guidare il Comune nel dicembre 1915, con tutti gli onori e gli obblighi annessi e connessi. Gli indignati socialisti, durante il conflitto, continueranno a far sentire la propria voce critica sul loro giornale “La Scure” che sarà più volte censurato e sequestrato.
Ben presto la popolazione valenzana deve sopportare i gravi disagi procurati dalla guerra, decisa da pochi e patita da tutti: aumento dei prezzi, mancanza di certi generi, inflazione e disoccupazione crescente. Nel 1917 s’inaspriscono anche i rapporti di lavoro, con molte agitazioni: prima i lavoratori delle calzature, quindi gli operai orefici. Non potevano mancare le filandaie della Ceriana che entrano in sciopero il 18-3-1918 (lavorano 10 ore al giorno per pochi soldi).
Cessata la guerra, costata quasi 700 mila morti all’Italia e 139 a Valenza (129 nati tra il 1876 e il 1899), più 36 mutilati e invalidi, molti feriti e altri deceduti per le conseguenze, le agitazioni e le vertenze locali aumentano spaventosamente.
Pure a Valenza si sciopera; l’entusiasmo per la vittoria è già cosa di ieri, i malumori, la lotta sociale, i contrasti politici-sindacali e i subbugli sono numerosi, gli ingredienti sono sempre gli stessi e sono tutti presenti: aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro, forte enfasi e tanta arroganza politica. Si sommano anche proteste in favore della Russia, per smobilitare l’esercito, per l’amnistia, per solidarietà. La pervasiva Camera del Lavoro locale minaccia duri interventi verso chi si astiene dalle manifestazioni e risulterà un rimedio peggiore del male perché avvicinerà molti lavoratori alle forze reazionarie di destra. Tuttavia, gli spazi per la politica non sono tanto gli ambienti lavorativi quanto i caffè, le piazze e i mercati; qui avviene la propagazione più ampia delle idee e dell’epidemia spagnola in corso (senza lockdown). Queste le principali vertenze sindacali locali del triennio 1919-1921: marzo 1919 scioperi nelle ditte calzaturiere Melgara, Provera e Pavese, maggio 1919 nella ditta orafa Genovese, dicembre 1919 sciopero generale, marzo 1920 astensioni dei bottai, maggio 1920 nella ditta Legnazzi, aprile 1920 scioperi generali vari, febbraio 1921 si fermano i mugnai e i carrettieri.
Il 18-1-1919 nasce il Partito Popolare Italiano, fondatore don Luigi Sturzo, partito cattolico in antitesi al liberalismo e al socialismo. La sezione valenzana si costituisce nel giugno 1919, i primi popolari valenzani sono Giuseppe Colombo, Luigi Deambroggi, Giuseppe Manfredi, Pietro Staurino, Luigi Venanzio Vaggi (sono gli stessi che saranno i fondatori della DC valenzana nel 1943).
Per i popolari, che sono pilotati e supportati dalla chiesa locale, i socialisti sono un covo di anticristiani che hanno aggravato le condizioni del proletariato tramite un processo diseducativo e un indottrinamento ateo e materialistico senza precedenti. Con queste premesse, i rapporti a livello locale con i socialisti non sono per nulla semplici e, con l’affacciarsi sulla scena politica del Partito Comunista, lo scontro diventerà ancora più vivace e drammatico. Con una buona dose di fanatismo, se le danno di santa ragione.
Nel mese di novembre 1919 sono indette le elezioni politiche con le novità dello scrutinio di lista e della rappresentanza proporzionale; Valenza non è più collegio ma fa parte della circoscrizione di Alessandria. Non si elegge più un solo rappresentante, è terminata l’era dei Ceriana e dei Calvi. Nella nostra circoscrizione si afferma il partito socialista che manda alla Camera ben sei candidati tra cui i nostri Francesco Tassinari e Paolo De Michelis. A Valenza: socialisti 67%, popolari 9%, liberali 12%, agrari 8%.
Sconfitti e attoniti, i liberali valenzani sono ormai allo sbando, al bersaglio ci sono ora i “pipilari”, amici dei preti e nuovi nemici dei “rossi”. Questi ultimi, predominanti nello scenario politico locale, il 22 maggio 1920 inaugurano la “Casa del Popolo”, mentre un gruppo di operai socialisti, guidati da Alessandro Morosetti, nel gennaio 1920 ha creato la Cooperativa Operaia di produzione e Lavoro.
Il 26 settembre 1920 si vota per il Comune. L’esito elettorale conferma, oltre ogni previsione, la forza dei socialisti; eletti tutti e 24 i candidati della lista, oltre 1.100 i voti di maggioranza. Stesso trionfo per il consigliere provinciale eletto Oliva (1.699 voti contro i 578 di Vaccari a Valenza). Moderato nel fare e riflessivo nel dire, Oliva è in testa ai consensi popolari, ha governato la città con efficace passione e ha messo l’anima nel suo lavoro. La maggioranza socialista nel Consiglio comunale risulta così composta: Oliva Luciano, Spalla Raimondo, Marchese Giuseppe, Vecchio Giovanni, Raiteri G.Francesco, Lenti Agostino, Ferraris Carlo, Milano Giuseppe, Bona Vittorio, Cuniolo Francesco, Mazza Luigi, Camurati Francesco, Garlandi Giglio, Visconti Oreste, Scarrone Luciano, Soro Giuseppe, Bonino Pietro, Morosetti Alessandro, Visconti Stefano Carlo, Genzone Vincenzo, Sacchi Mario, Arlando Ernesto, Amisano Francesco, Barge Vittorio. Questa la minoranza: Soave Mario, Biglieri Giovanni, Ceriana Amedeo, Angeleri Nicola, Vaccari Luigi, Ferraris Giovanni.
In una situazione di profonda divisione, più politica che amministrativa, Oliva è confermato sindaco durante una seduta del Consiglio nella quale i consiglieri di minoranza non si presentano, però poco dopo si dimette per incompatibilità con la carica acquisita in provincia. Viene surrogato come primo cittadino da Giuseppe Marchese e, messo pressoché fuori gioco, segue da remoto. Gli assessori sono: Camurati, Lenti, Milano, Morosetti, Vecchio, Ferraris.
Per l’opposizione cattolica-liberale la disfatta è spessa e completa; con soli sei consiglieri vive questo periodo come un calvario, in un distaccato disprezzo, tra gli sberleffi dei vincitori. I liberali non possiedono neppure più un’organizzazione territoriale. È finita la “grandeur” d’inizio secolo, impossibile da resuscitare, e non c’è “feeling” neanche con una parte del ceto medio: hanno cosparso la loro strada di fallimenti ideologici e di strategie e ora si sono squagliati come il burro al calore del nuovo “sole”. A raccogliere l’eredità e a contrastare i socialisti restano solo i cattolici che alle comunali non hanno presentato alcuna lista.
TORNA AL BLOG DI PIER GIORGIO MAGGIORA
Nel mese di dicembre del 1920 la sezione socialista locale, nel corso di due animate assemblee, definisce l’indirizzo per il XVII congresso nazionale del Partito: massimalista unitaria, senza scissioni, aderenza alla Terza Internazionale e adesione alla mozione Serrati-Baratono (massimalista). Emergono anche altre posizioni: quasi tutti i veterani sono per i riformisti di Turati e Treves, mentre un’esigua minoranza sostiene le tesi di Gramsci e Bordiga. Al Congresso di Livorno la scissione è però inevitabile poiché la divisione tra i comunisti e la frazione “concentrazione” è ormai netta e profonda. Dopo questi risultati nelle votazioni, unitari (massimalisti) 92.028, concentrazione (destra di Turati, Matteotti e Treves) 14.695, comunisti (Gramsci, Togliatti, Terracini) 58.783, astenuti 981, il 21 gennaio del 1921, i comunisti abbandonano la sala cantando l’Internazionale e costituiscono al Teatro San Marco il Partito Comunista, sezione italiana della Terza Internazionale.
Il 28 gennaio 1921 si tiene un’affollatissima assemblea generale dei socialisti valenzani per ascoltare la relazione dei rappresentanti Barge e Sacchi, reduci dal congresso. Vi è molta confusione e scarsa comprensione delle tesi congressuali. Si rivendica il sacrosanto diritto d’appartenenza alla Terza Internazionale, si accusano i più giovani d’essere troppo impazienti nel voler concretizzare la dottrina, vi è non troppo rammarico verso chi se ne va. È un convergere tra divergenti, senza nulla decidere né risolvere, con insensati e vieti atteggiamenti anticlericali; una situazione che ai più pare sfuggita di mano. L’ostinazione con cui si respinge ogni revisione ci fornisce una preziosa radiografia dei mali di questa sinistra, stretta in un pollaio con troppi galletti. Da qualcuno certe proposte sono prese in considerazione soltanto per essere scartate con un ghigno. Nel pentolone socialista dei malumori e dei capricci, i comunisti fanno ormai sempre più fatica a sentirsi a casa propria.
Ben presto, il collante che li tiene insieme si dissolve, Florindo Panzarasa, Ercole Morando, Scalcabarozzi ed altri escono dal partito e, seminando disappunto diffuso tra gli ex compagni, fondano in via Magenta il Circolo Comunista che attrae quasi subito circa una cinquantina di aderenti ai quali si aggregano altri valenzani, già tesserati in Alessandria, quali Accatino, Casolati, Gobbi, Vaccario. Il principale artefice della realizzazione è Ercole Ferraris (nato a Valenza), segretario provinciale, ordinovista, leader tra i lavoratori alessandrini.
I militanti sono quasi esclusivamente operai, gente pura e semplice che, nel dichiararsi marxista e filorussa, presume di essere nel bene e nel giusto. Non sanno del lungo incubo sanguinario e tirannico che il popolo russo dovrà subire per quel golpe che dalla dittatura di classe porterà subito alla dittatura e basta.
Dopo pochi mesi, con molto effetto scenico, viene costituito anche il Fascio valenzano che prelude al cataclisma e a una nuova lunga stagione di odio. Il segretario politico è Paolo Mantelli e il presidente è l’ex liberale Giovanni Merlani: inizialmente conta su una sessantina d’iscritti che certificano così la loro metamorfosi.
Mentre in provincia i comunisti trovano ben presto nuove adesioni tra le file socialiste, a Valenza il gruppo socialista, forte della componente maggioritaria massimalista più radicale, mantiene un’evidente supremazia nei numeri sui cugini guastafeste, spesso beccati sul solito giornale socialista “La Scure”. I socialisti valenzani, con torve ironie, guardano dall’alto in basso gli avversari e questi nuovi compagni, in virtù di un primato che esiste nelle loro menti, più genetico che politico, annaspano su certi temi e rinviano le scelte incancrenendo la situazione: sterili custodi di un’identità sbiadita, mentre i fascisti si moltiplicano. I principali esponenti socialisti del periodo, che hanno finora dimostrato un amore furente e cieco, purissimo, indisposto a compromessi, sono: Alessandro Morosetti (segretario del partito), Vittorio Berge (segretario della Camera del Lavoro), De Michelis, Marchese, Oliva, Sacchi, Ferraris, Bonzano.
La popolazione valenzana agogna il socialcomunismo, ma non pochi preferiscono il fascismo vivendo di speranza e illusione, spesso disgustandosi per finta. Per cattolici e socialcomunisti è impossibile darsi la mano e, dietro gli schiaffi e i colpi bassi, si avverte un terribile vuoto che ben presto sarà riempito da altri e porterà nulla di buono. Ora l’agitazione rivoluzionaria, ardente e inutile, dei massimalisti spinge sempre più a destra gran parte della borghesia e del mondo contadino valenzano, impaurito dalle minacce rivoluzionarie, accrescendo il sentimento generale d’incertezza sul futuro. A ciò bisogna aggiungere il limite delle dirigenze di questi movimenti locali con apparati acciaccati, di qualità tutt’altro che adeguata, e un malessere crescente nella società e nel mondo produttivo.
La XXV legislatura parlamentare dura meno di due anni (novembre 1919-maggio 1921) perché Giolitti, ritenendo giunto il momento d’infliggere una sconfitta alle forze proletarie, dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche e la scissione dello PSI al congresso di Livorno, scioglie la Camera per nuove elezioni che non danno però l’esito sperato.
Nelle elezioni generali del 15 maggio 1921, a Valenza i socialisti (55%), i comunisti (9%) e i popolari (9%) mantengono le loro posizioni mentre il blocco che abbraccia un po’ tutti gli altri, fascisti compresi, non ottiene quel successo sperato (26%), molto lontano dai risultati nazionali e da quelli della circoscrizione. Sono le elezioni che ammettono il Partito Fascista nel parlamento e il suo riconoscimento come insostituibile garante dell’ordine, in molti casi ottenuto con soprusi e violenze.
Che sarebbe sfociata così, in fondo, era paradossalmente addirittura ipotizzabile.