Valenza ai tempi della Spagnola
Il professor Pier Giorgio Maggiora ci porta indietro di un centinaio d'anni
VALENZA – All’inizio del secondo decennio del XX secolo, Valenza, con circa 12.000 abitanti e quasi 200 imprese (di cui una cinquantina nel settore orafo, una trentina in quello calzaturiero, 3 fornaci ed una filanda), è tra le città italiane più benestanti, assai accresciuta economicamente; però sciaguratamente nel 1915 giunge l’ora del Piave e molti giovani valenzani entrano nell’estesa fornace della Grande Guerra. Una bufera di piombo e di sangue che dura 43 interminabili mesi (24-5-1915 / 4-11-1918). A Valenza si recano al fronte circa un migliaio di giovani sotto i trent’anni. Poveri fanti strappati alla vita operaia o contadina e mandati a soffrire o morire per Trento e Trieste, in trincee spettrali, gas letali, cariche alla baionetta contro mitragliere impietose. Un’inutile strage; tra i militari valenzani partecipanti 139 morti (129 nati tra il 1876 e il 1899), 36 mutilati ed invalidi, molti i feriti e altri deceduti per le conseguenze.
Durante il conflitto l’attività orafa è quasi sospesa (insostenibile l’approvvigionamento dei metalli preziosi, rarefatti e saliti di costo, e delle pietre: 37 fabbriche su 41 chiuse), tuttavia nell’insieme a Valenza il lavoro non manca. Nel 1916 i disoccupati che ricevono il sussidio dal Comune sono solo una cinquantina. Invece, al termine del conflitto, il risveglio dell’oreficeria sarà veemente, quasi un recupero del tempo perduto (come sempre nei periodi di crisi per molti, i prodotti per pochi vanno benissimo).
Ma se al termine della guerra è super boom per i gioielli non cosi è il benessere fisico dei valenzani i quali devono coesistere fra il 1918 e il 1920 con la terribile influenza spagnola. Una pandemia che colpisce tutto il mondo ed uccide diverse decine di milioni di persone (almeno 25 milioni, ma gli storici ipotizzano cifre ancora più alte, persino cento milioni, in Italia non meno di 600 mila, a Valenza più di cento). È una delle più terrificanti pandemie della storia, arriva a infettare circa mezzo miliardo di persone: si consideri che la popolazione mondiale conta poco più di 2 miliardi d’abitanti. Il diffondersi della spagnola è probabilmente agevolato dalla Prima guerra mondiale, ancora in corso nelle prime fasi del contagio. Inizia nel marzo 1918, si scatena nella tarda estate e, con effetti drammatici, in autunno e durante l’inverno del 1918-1919, tirando avanti con decremento sino ai primi mesi del 1920.
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I sentimenti più diffusi tra la popolazione locale sono la costernazione e la paura, ma molto estesa è la rassegnazione a ciò che è ritenuto inevitabile e forse, per tanti, anche la dimostrazione della solita “ira divina” per i peccati commessi dall’umanità in guerra.
È un pericolo che si rileva quasi più letale e spaventoso del conflitto appena chiuso. La maggior parte dei valenzani contagiati dal virus (più di un migliaio) guarisce in una settimana, ma alcuni muoiono entro 24 ore dall’infezione. I sintomi sono: tosse, dolori lombari, febbre, emorragie delle mucose (naso, stomaco, intestino) e petecchiali. Subentra nella fase acuta una patologia simile a quella della polmonite (decorso somigliante all’odierno coronavirus).
L’impotenza è grande, si tentano terapie con preparati a base di olio di ricino, di aglio, di tinture di iodio, di acido fenico, l’aspirina, il chinino, la canfora, la cannella, il salvarsan, il bicarbonato di sodio, il citrato di sodio, ma tutte risultano vane.
I soggetti con malattie rilevanti (tubercolosi, malattie di cuore, ecc.) sono, come sempre, più predisposti ad un’evoluzione infausta. L’impressione generale è che il sesso femminile sia più colpito rispetto al maschile e non si sa rispondere ad un’evidenza: la malattia risparmia gli anziani o li colpisce in modo meno grave, mentre si accanisce con i giovani.
Nei piccoli laboratori orafi la vicinanza nei banchi di lavoro favorisce la diffusione del contagio, il quale è però in parte rimosso dall’utilizzo di certe sostanze (acidi, composti vari) e dalle fiamme utilizzate (saldatura, fusione, ecc.) letali per il virus. Più debole la resistenza alla diffusione nei calzaturifici e nella filanda dove abbonda la manodopera femminile.
Nel 1920 l’orribile malattia, tanto rapidamente quanto era comparsa, si arresta e in breve tempo svanisce completamente. Pure l’entusiasmo di certi valenzani per la vittoria militare è già cosa di ieri, quasi dissolta, mentre i malumori, la lotta sociale, i contrasti politici-sindacali, le agitazioni e gli scioperi sono sempre più numerosi. Gli ingredienti sono sempre gli stessi e sono tutti presenti: aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro, forte enfasi e tanta arroganza politica.
Il diffuso benessere locale, in contrasto con il resto del Paese, provocato dal rilevante sviluppo industriale dell’oreficeria e delle calzature, avrebbe probabilmente smorzato, in altri luoghi, tante velleità ribelli, rendendo assurda e anacronistica la propaganda e l’azione della politica più irruente. A Valenza invece, per quanto possa sembrare paradossale, questa propaganda e questa azione (per di più permeata di accenti radicali) trovano vasto consenso popolare, tanto da caratterizzare l’indirizzo politico della città nel primo dopoguerra e assicurare sino al 1921 un’amministrazione comunale socialista (sindaci Luciano Oliva e, dopo le elezioni del settembre 1920, Giuseppe Marchese). Quasi un trascinamento illusorio; poi, purtroppo, la realtà non farà sconti a certe utopie.