Valenza, Alessandria e il Barbarossa
Nuovo approfondimento storico con il professor Maggiora
VALENZA – Il mitico imperatore Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, spaventato per quella che appare come una lenta distruzione dei suoi feudi, nel 1163 scende nuovamente in Italia per ribadire la propria autorità. Concede al Comune di Pavia (dove nel 1155 è stato incoronato re d’Italia) la giurisdizione su un ampio territorio, sottomettendo ad esso il Comitato di Lomello e, per rendersi benevoli i patrizi del Monferrato e lo stesso parente (zio o genero?) marchese Guglielmo V detto il Vecchio (vero fondatore del Marchesato di Monferrato, il più deciso oppositore dei Comuni, per ora), attribuisce al marchese diverse corti regie: diploma stilato nel dicembre 1163 e riaffermato l’8 agosto 1164. Fra le terre concesse in dominio compare anche Valenza che da circa un secolo è legata al Comitato di Lomello.
Accresce quindi in modo perentorio l’atteggiamento malevolo degli abitanti di Valenza nei confronti del Barbarossa; essi ricordano le spaventose distruzioni da lui provocate nel 1155 per ricondurre all’obbedienza quei comuni che si erano resi troppo autonomi. La città era stata occupata dalle sue truppe e nell’anno dopo invasa anche dai Pavesi (complici di Federico), dilagati in tutta la Lomellina sino a Valenza, per vendetta contro la resistenza dei Conti di Lomello. Le crudeltà teutoniche e pavesi erano state pesanti. Le corvées imposte, gli abbattimenti di mura, gli scavi per le cinte nuove, le distruzioni di casolari e di messi sono ricordate con terrore.
Tanti dei Comuni della vasta zona padana (i quali avevano spesso agito in passato come piccoli stati indipendenti), buttati a terra ma votati al sacrificio, si erano quindi legati a Milano e sono stati perciò nuovamente messi a ferro e fuoco dalle cosiddette milizie imperiali: nel 1162 la ricca, popolosa ed egemone “capitale” del tempo (Milano) è stata rasa al suolo senza pietà. Un’incarnazione del peggio possibile che provocherà la formazione della Lega Lombarda dei Comuni della Padania (la Societas Lombardiae, nel 1167) con lo scopo di contenere l’imperatore tedesco. Ma non mancheranno fedeli timorosi laudatores e accalorati consensi da una grossa parte della società del tempo verso il monarca germanico.
In questi tempi (1163-1164) il marchese Guglielmo V di Monferrato (unico figlio maschio del primario marchese Ranieri) si preoccupa di organizzare l’ordinamento del suo marchesato, sia dal punto di vista politico che territoriale. Egli nomina signori di Valenza Anselmo, Raineiro e Oberto Visconti (di Monferrato) e crea signore di Lazzarone (attuale Villabella) Ferdinando Sannazzaro.
L’imperatore Federico I riconferma i privilegi ai Sannazzaro e li estende ai discendenti cavalieri (milites) Rainero, Burgondio (Bergonzo), Assalito e Guidone (Widonis) de Sancto Nazario: almeno due sono figli di Ferdinando. Essi, nel Duecento, sfrutteranno il diritto concessogli di costruire castelli ed erigeranno quello di Giarole (anticamente Mojole, all’epoca Mogliole), concretando una brama paterna.
I Sannazzaro sono una nobile famiglia lomellina (Sannazzaro de Burgondi), l’origine deriva, forse, da alcuni cavalieri franchi venuti in Italia al seguito di Carlo Magno all’inizio del secolo IX.
I Visconti valenzani sono i discendenti di Oberto e Anselmo d’Astiliano (antico nucleo di Valenza). Si sono consolidati localmente con le loro parentele (famiglie Cane, Consorti, Colombo, Cellamonte) tutti derivanti dai Visconti di Monferrato (uno dei numerosi rami familiari viscontei).
Ma questi reggenti di Valenza, impreparati e impauriti, non sono in grado di affrontare le complesse e pericolose circostanze che stanno per sopraggiungere: cercano di minimizzare e negare il pericolo esistente con marce e retromarce. La difesa della località passa dalle forze armate che in questo posto non ci sono e il territorio è suddiviso fra una folla di piccoli proprietari, signori laici ed ecclesiastici, contrapposti e privi di milizie.
I rustici locali non hanno i mezzi, la coscienza o la facoltà di combattere. I villani sono privi di tutto e pure gravati da varie gabelle: le decime, il fodro, il quarto, il giogatico, la bovateria che fanno parte del sistema e che nessuna rivoluzione può cancellare. L’inferiorità giuridica dei rustici è visibilmente simboleggiata dal non avere l’opportunità di fare testamento.
Tra i più determinati oppositori valenzani al marchese e all’imperatore vi è l’ingombrante console Rufinum de Valentia, personalità autorevole ma tignosa e controversa, che è quasi messo al bando dall’Impero nel 1167. Egli, un eroe o un martire? Un uomo vero con attorno un’aura d’audacia e un supplizio per essersi rivoltato all’oppressore; non poteva concepire niente di più efficace che sostenere pure gli alessandrini per guastare oltremodo l’umore degli imperiali, rischiando l’allontanamento perpetuo dalla sua terra.
Negli stessi anni viene alla luce in sordina la Cittanova (Alessandria), intorno ai borghi fortificati di Bergoglio (alla sinistra del Tanaro dove oggi emergono le mura della cittadella) e Rovereto o Rovoreto (alla destra del Tanaro, dove all’epoca è insediato un castello). Sono collegati con un ponte di barche e sono appartenenti a signorie diverse, ma ora unite da obiettivi comuni. L‘avversione fra Occimiano e Monferrato, con l’azione dei domini di Foro, è uno dei grandi nodi all’origine del moto che porta alla fondazione di Alessandria per iniziativa del console di Gamondio Emanuele Boidi, di Oberto di Foro e dei suoi consorti.
—Il Sacro Romano Impero al tempo di Federico I Barbarossa—
La città abitata inizialmente da propugnatori dell’impero, da dove il nome di Cesaria, poi Cittanova, è ora amministrata da una setta di agguerrite famiglie antimperiali nemiche dei Monferrato, le quali, facendo leva sul popolo minuto, inquieto e incollerito, fanno aderire la città alla Lega lombarda. Nel maggio del 1168 tre consoli, Oberto da (di) Foro, Rodolfo Nebbia, Aleramo di (da) Marengo, cavalcano sino a Lodi per annunciare ai Rettori della Società di Lombardia l’adesione di Alexandria Civitas (in onore di Papa Alessandro III) alla lotta di resistenza contro Federico I. Ma è una città illegale non tollerata dal legittimo imperatore, che negli atti pubblici non la considera divenuta tale e la continua a chiamare con il vecchio nome di Rovoreto o Cesaria, mentre il marchese del Monferrato da tempo accampa possenti diritti su Bergoglio e Villa del Foro generando tendenziosità e contraddizioni.
Dire che la situazione pubblica sia sconvolta è poco perché, quando il Barbarossa nel 1155 invase questo territorio per una conveniente purificazione dei vanagloriosi, e i piccoli borghi fra Tanaro e Bormida furono risparmiati, gli abitanti (più di 10 mila) sapevano bene che prima o poi l’imperatore avrebbe rivendicato Bergoglio e Villa del Foro per restituirle al congiunto asservito marchese.
Nel 1169 Cittanova-Alessandria-Cesaria (sul nome le fonti sono dissimili sino al 1170) aderisce quindi, più o meno pretestuosamente, alla “Lega Lombarda”, quasi adottando il criterio della provocazione, e si allea con Asti nella lotta contro Guglielmo V. La città diventa ben presto un punto focale di raccolta delle popolazioni angosciate dalla nuova situazione bellica. Molti abitanti dei dintorni distruggono perfino le loro abitazioni per cercar rifugio nella nascente città; tanti altri arrivano dai paesi vicini e anche da Valenza. S’iniziano a costruire mura e a scavare fossi di difesa: una partecipazione collettiva.
La sedizione che avviene ad Alessandria, e che coinvolge anche Valenza (costretta a giocare con difficoltà un ruolo a rimorchio), ha quali principali attori i Milites (valvassori che possiedono terre e diritti, la classe feudale di secondo grado) quali Manfredo di Valenza, Ruffino di Bassignana, i Ruffino e Raineri di Mirabello, Pugno di Gamondio, Peregrino di Piovera, Manfredo di Platea e altri. Sono la classe intermedia fra i grandi e gli infimi. Lo sconvolgimento alessandrino non lo fanno quindi i villani, non è una rivolta o altro movimento di popolo. I rustici di questi anni non hanno le possibilità o la capacità politica neanche per immaginare di ribellarsi.
Per avere una legittimità, i “mandrogni” si rivolgono a papa Alessandro III cui nel gennaio del 1170 giurano fedeltà tramite due consoli (Ruffino Bianco e Guglielmo di Bergamasco), inviati appositamente a Benevento, diventando così parte integrante dello schieramento guelfo che comprende anche, con un ruolo incerto e secondario, Valenza.
Quindi, anche Valenza (Valentia o più verosimilmente Valencia) aderisce alla Lega Lombarda e partecipa, in modo spavaldo e un po’ folcloristico, a queste lotte comunali ma, con una “chiarezza madornale” e coerente come i cavoli a merenda, farà dietrofront e cambierà alcune volte schieramento (svolta e contro-svolta), banderuola per ragioni d’opportunismo e soprattutto per i non pochi contrasti presenti tra i più autorevoli e smarriti personaggi locali. Causati principalmente dalle nascenti contese interne tra i fautori del Papato (Guelfi) e i fautori dell’Impero avversi alle libertà comunali (Ghibellini). I Sannazzaro, signori di Lazzarone, anche per salvarsi il piedistallo, sono fedeli sostenitori della parte imperiale, i Visconti sono più vicini al Papa. Paiono però amori di tipo senile che vanno e vengono, percorsi che si snodano tra conflitti e riconciliazioni ad ogni mutar di fronda.
Ciò che succede è paradigmatico del disordine dominante a Valenza, ma i cambiamenti di fronte in questi tempi sono facili e le alleanze molto mutevoli (sono mobili qual piuma al vento). Si cambia abito e alleati pur di mantenere l’obiettivo stabile: la conservazione del potere, da gestire con arroganza e brutalità. O meglio, si cambia parte perché non cambi nulla (un disordine che, purtroppo, dopo quasi mille anni, conosciamo anche ai giorni nostri).
Ma siamo più fra le supposizioni che tra dati certi; nei pochissimi documenti dell’epoca esistenti, riferiti ad atti in luoghi diversi, compaiono alcuni nomi di valenzani detentori di un certo potere, quali Anselmus de Valenza (un Visconti) e Rufinum de Valentia (illustre console antimperiale).
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Nel 1172 gli alessandrini con alcuni valenzani prendono parte, al fianco delle truppe della Lega Lombarda, ad un’altra missione militare contro Guglielmo V di Monferrato.
L’onnipotente imperatore Federico I, sciolte le faccende che lo fermavano in Germania, torna ad alzare la voce e scende nuovamente in Italia per punire i Comuni ribelli (colpire qualcuno per educare gli altri). Affronta di petto, e col bastone, quell’anarchia padana che sta divorando come un cancro il suo impero. Nel 1174 le sue truppe, con 2 mila attrezzati cavalieri, note per la loro “proverbiale” umanità, calano in Italia dal Moncenisio, incendiano Susa, entrano in Torino rispettandone però la neutralità, giungono alle porte di Asti che terrorizzata si arrende senza combattere, quindi si presentano alle porte di Alessandria chiedendo la resa incondizionata: è il 29 Ottobre 1174. Non ci sono patti, alleanze né regole. C’è solo la volontà dell’imperatore. Al rifiuto, le sue milizie, aiutate da quelle monferrine e pavesi, attaccano ma sono respinte da una gagliarda reazione alessandrina: inizia così un lungo assedio.
Le condizioni atmosferiche aiutano gli assediati; Tanaro e Bormida, gonfiati da abbondanti piogge trasformano il terreno in un pantano; l’inverno precoce e particolarmente rigido frena ogni iniziativa bellica.
I cittadini sono alla fame ma resistono nell’attesa dell’arrivo delle truppe amiche della Lega Lombarda, invece queste, accampate nei dintorni di Voghera, si limitano a tenere d’occhio i movimenti dell’imperatore. Sopraggiunge nel frattempo la primavera, le titubanti truppe della Lega si muovono verso Tortona e Federico I, timoroso di essere preso tra due fuochi, cerca con l’inganno di penetrare finalmente nella città: un tentativo di lavaggio dei neuroni cerebrali degli scaltri “mandrogni” malriuscito. La sorpresa viene sventata e un poderoso contrattacco alessandrino convince l’imperatore a togliere l’assedio e a rifugiarsi nella fedele Pavia, dissimulando la disfatta. E’ il 12 aprile 1175, seguirà la successiva pesantissima sconfitta del Barbarossa a Legnano nel 1176, dove la fanteria comunale sconfiggerà la cavalleria imperiale nella prima azione di riscossa degli italiani vessati contro il tedesco invasore.
Diversi valenzani hanno partecipato alla difesa di Alessandria, fornendo principalmente supporti alimentari per gli uomini e le bestie; alcuni, coinvolti in combattimenti fuori della città, hanno perso la vita. Sono stati anche parecchi quelli prostrati nelle file degli imperiali e, specialmente, in quelle del deprecabile marchese di Monferrato il quale si è trattenuto sovente, in modo equivoco e contraddittorio, a Valenza e che ben presto cambierà bandiera quando le fortune del parente imperatore termineranno. Egli, nel 1186, tornerà in Terra Santa ottenendo un feudo in Galilea dove morirà.
Il console Ferrario di Valenza partecipa nel 1178 alla composizione di un primo accordo ad Appiano, tra Guglielmo V e i Rettori della Società di Lombardia (che comprende tutta la Padania) e Alessandria.
Fu vera vittoria? Mica tanto. La nuova città, che è stata quasi abbandonata dalla Lega lombarda, si deve ben presto sottomettere all’Impero cambiando il proprio nome ed assumendo nuovamente il nome di Cesaria (Cesarea per alcuni).
Poi dal 1189 la fame e la peste affliggono per qualche tempo tutto il nostro territorio, ma, prima che il secolo termini, Federico Barbarossa ed Enrico VI, il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Germania e d’Italia dal 1190 al 1197, scompaiono insieme all’effimera Cesarea e, approfittando del continuo scontro tra Papato e Impero, Alessandria riprende il suo agognato nome e si afferma come libero Comune, anche se certe incognite restano.
Sottomessa e devota, anche Valenza ripiomba ben presto sotto la sudditanza dell’imperatore e per lui all’intransigente nuovo marchese del Monferrato (Guglielmo VI, figlio di Bonifacio I e nipote di Guglielmo V). Per i valenzani si profila quindi la più detestata delle condizioni: essere marginali, relegati ad un ruolo secondario e, come il solito, con giravolte impressionanti. La città risulta pure al confine del Marchesato di Monferrato con una collocazione giuridica quasi indefinibile di semi libertà. Il governo del Comune, pressoché autonomo, è ora esercitato dai consoli che generalmente durano in carica un anno e hanno il potere esecutivo. Vi è quindi una specie di pratica di governo popolare locale, anche se col termine “popolo” (homines) va inteso solo il ceto dei notabili, cioè quei cittadini più in vista nella vita civile e politica, per censo o ruolo sociale.