Valenza e i romani
Continua il viaggio nella storia della città
VALENZA – A partire dal 500 a.C. il nostro territorio è percorso da gruppi di Galli-Celti che hanno varcato le Alpi (saranno vere invasioni dal 400 a.C.). La cultura celtica, più evoluta che quella primordiale ligure, lascerà una traccia profonda in queste aree. Di componenti celtici se ne trovano tracce in alcuni termini dialettali ancora in uso, come “brik” che significa collina o come “grana” che significa splendente (Valle Grana, dove i Celti si stanziano inizialmente). In questi secoli la popolazione della nostra zona resta piuttosto limitata, si parla un dialetto locale, è presente molto terreno incolto e paludoso.
I nostri primi rapporti con i Romani si hanno con le guerre Puniche e sono subito incandescenti. Le nostre popolazioni si schierano, per ragioni diverse, contro i Romani (tra il 225 e il 222 a.C.) e questi, infuriati, rispondono con varie incursioni offensive in zona. Nella Seconda guerra Punica romana, contro Annibale (218-201 a.C.) le nostre genti sono a fianco del cartaginese, subendone dai Romani le peggiori e insensate conseguenze.
A Roma questa zona gallica viene descritta da reduci e mercanti come una terra generalmente inospitale, fredda e selvaggia, cosparsa da lande deserte e foreste impenetrabili, abitata da gente cocciuta e astiosa. Il nostro territorio, dopo il controllo di Roma (vassallaggio), non fa tuttavia parte dell’Italia romana, ma è considerato una provincia con un’organizzazione giuridica difforme. Tuttavia, tra il II e il I secolo a.C., Valentia (un vecchio borgo ligure, con scarsa popolazione) si configura e si romanizza: una mitica palingenesi. Probabilmente, prende il nome Valentia dal magistrato e proconsole Marco Fulvio Nobiliore nel 158 a.C. (vittorioso sulla tribù ligure degli Eleates). E sempre presumibilmente (poiché diverse volte smentito) si evolve in un secondo tempo in “Foro” che, oltre ad essere un luogo di mercato e d’amministrazione, è soprattutto un importante punto di ritrovo guarnito e una straordinaria occasione di crescita. Diventerà sicuramente una “fortezza permanente” (Castrum), vale a dire un accampamento militare aperto, difeso da un fossato (campo militare trincerato) messo a controllo del passaggio sul Po, e sarà porzione di colonia militare. Queste sono composte principalmente da veterani cui è assegnato un lotto di terra da presidiare.
Solo nell’anno 49 a.C. è varata una legge per l’estensione della cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina e queste città, dopo il 43 a.C., diventano municipi nella strutturazione politica romana. I nostri antenati si trovano quindi di fronte ad una condizione di servilismo nuova che non sanno bene come affrontare, il territorio preso in possesso dai Romani è trasformato in demanio e lasciato ai proprietari, che diventano fittavoli relativamente autonomi, ma una parte della terra valenzana è assegnata ad alcuni veterani romani. È il periodo in cui si sviluppa in modo consistente la coltivazione della vite. Esistono due classi: patrizi (possidenti terrieri) e plebei (commercianti, artigiani, edili). Gli schiavi non sono considerati esseri umani, solo strumenti di lavoro come il vomere e le vacche.
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Quindi è negli ultimi anni del I secolo a.C. che la gente valenzana ottiene la cittadinanza romana (aspirazione non certo nascosta). Valentia o Valenza diventa un Municipio (condizione privilegiata che ridisegna la realtà), crescendo speditamente in abitanti e considerazione. La famiglia costituisce il paradigma e il raggruppamento fondamentale di questa società, dove migliora l’ordine e la giustizia.
Nel 14 a.C. l’imperatore Augusto, di conquista in conquista, giunge alle Alpi. L’Italia è divisa in 11 regioni e in 25 tribù: Valentia, della tribù Pollia, è inserita nella IX Regio Liguria Augustea (a sud del Po).
La popolazione del Municipio valenzano romano si ha in ogni caso ragione di ritenere che sia cospicua per i tempi, infatti, solo per quanto riguarda l’apparato difensivo, la nostra città può contare sull’apporto di circa mille soldati, divisi in compagnie di fanteria (opliti e compagnie scelte di veterani) e in due turme (cavalleria leggera d’assalto).
Taluni narratori parlano perfino dell’esistenza in Valenza di un’arena (panem et circenses), utilizzata principalmente per la formazione e l’addestramento di truppe scelte, altri ascrivono la presenza di una Compagnia dei terribili arcieri Frigi, impiegati solitamente per la loro fedeltà all’Impero nella scorta o nella protezione d’importanti personalità (non sarà del tutto vero, ma diventa verosimile). Conseguentemente, l’apparato militare esige la presenza di consistenti strutture economiche, sia per lo stesso approvvigionamento delle truppe, sia come diretta conseguenza.
Nel mercato valenzano è perciò probabile vi comparissero merci d’ogni tipo, incluse quelle superflue o voluttuarie, tanto amate dalle donne. Normale che tra le merci in commercio vi fossero anche gioielli e nulla ci vieta di pensare che tale fabbricazione fosse compiuta dalla popolazione valenzana. Alcuni prosatori latini hanno scritto che a Valenza arrivavano profumi e stoffe preziose provenienti dal lontano Oriente, ceduti sui mercati del porto di Genova sino ad arrivare a questo punto di raccordo fra la via Fulvia e le strade che conducevano al Nord, in direzione delle Alpi.
Sia Plinio che altri autori latini si sono più volte soffermati sull’area della zona valenzana, rubricando scrupolosamente luoghi quali: Braja (campo vicino alla città), Cerretum (bosco di cerri), ad Urani (vicino al tempio del Dio Urano), ma sfortunatamente queste affermazioni, seppur preziose, sono mancanti d’ogni informazione topografica e pertanto difficili da comprendere. Nella “Tavola alimentaria” (Tabula alimentaria) di Traiano (100 d.C.) sulle istruzioni alimentari e prestiti da concedere, allo scopo di far fronte alla crisi della piccola proprietà agricola e alla stasi demografica, si parla del territorio Pago Valentino (V,80) e fra i 32 “pagi” compaiono i nomi: Aestinianum, Betunianum, Munatianum (forse Astiliano, Bedogno, Monasso). Il Pago è un territorio che comprende più vici o villaggi, possiede un proprio concilio “Converticole” e “un Magister pagi”.
Si consumano soprattutto cereali macinati e bolliti, formaggi, uova, frutta, verdura e pesci. È accertata la presenza di una strada alla destra del Po, collegante Valenza con Torino attraverso Auximianum (Occimiano), Vardacate (Casale), Pontestura e Industria, un’arteria basilare e mediana della rete stradale della Liguria Padana sulla destra del Po, costruita nel II secolo a.C.; non si conosce neppure il corso preciso della famosa via Fulvia di quest’epoca (è stata costruita nel 124 a.C. dal proconsole Marco Fulvio Flacco, belligerante nella nostra regione) e si può presumere uno spostamento del tracciato, nella seconda metà del I secolo d.C., in questa direzione. Infatti, Lazzarium (Villabella) è un luogo di riposo per le truppe romane di passaggio, probabilmente sulla via militare che da Tortona (Julia Derthona) porta a Torino (Taurinorum); Da notare che Valentia ha acquistato sempre più valorizzazione per l’asse fluviale del Po a discapito degli antichi centri della via Fulvia.
Impossibile stabilire le cause e il momento in cui si congiungono gli abitanti della Valenza ligure-romana, e i suoi borghi. Probabilmente nei due nuclei collaterali Gropella (dove esistono prove di una necropoli Romana) e Colombina si convogliano nel tempo alcuni altri piccoli agglomerati (villaggi-vici) rurali preesistenti (Astiliano, Bedogno, Monasso), delineando con più precisione i nuovi confini del luogo.
Un sarcofago romano (che si può ricondurre al II secolo d.C.) è conservato nel parco di villa Gropella. La scritta che compare si può tradurre in “a Lucio Calusio Marco, Tribuno della prima Coorte Flavia, Seconia Vera al figlio carissimo”.
La porzione abitativa di Valentia appare come un insieme d’edificazioni in muratura (innalzate dai Romani dopo la loro affermazione sui Liguri) e in materiali più semplici come il legno, l’argilla, ecc. Le prime accolgono i conquistatori e i trafficanti arricchiti, le seconde sono generalmente l’umile dimora degli originari dimoranti.
Regna l’ordine, la vita economica e sociale fa progressi, si attua la bonifica del territorio, la riduzione del terreno incolto, la costruzione di strade, canali d’irrigazione e bonifiche. L’agricoltura è l’attività più rilevante. Produzioni agricole in quantità singolare sono quelle dell’orzo e del miglio. Il numero di foreste e la quantità di ghiande sono assai propizie all’allevamento di suini.
In realtà, la fertilità della nostra zona è stata più volte citata nelle fonti storiche. Già nel II secolo a.C., Polibio affermava che la produzione di vini e di grano è così abbondante, che i prezzi di questi generi sono qui inferiori a quelli praticati altrove.
Gli uomini indossano la tunica di lana, sopra la quale pongono la toga, ma in relazione alle classi sociali e dei mestieri esistono differenze nei particolari; per difendersi dal freddo si usa il cucullus gallico (mantellina). Le donne indossano la stola, una lunga tunica. Per uscire da casa, sopra di questa, indossano la palla, una specie di toga di colore vivace, con un lembo della quale si coprono il capo. Quelle ricche amano immensamente i gioielli, i profumi e i cosmetici. L’illuminazione delle abitazioni è fatta con lucerne in terracotta e in bronzo. Generalmente in ceramica sono le ciotole, i tegami, i bicchieri, i vasi per conservare o trasportare gli alimenti.
Si può senz’altro affermare che dal I secolo d.C. sussista a Valentia una vera romanizzazione organica, questo luogo viene solo marginalmente interessato dalle guerre civili che si hanno alla morte di Nerone. Agli inizi del II secolo d.C. l’imperatore Adriano nomina prefetto-questore della nostra zona Tito Antonino Pio (per alcuni il vero promotore della Valenza romana, da cui il bricco Antonino). Di fatto, tutto ciò che è romano è ormai penetrato tra la popolazione. Una parte della lingua latina è arrangiata sulla forma del parlare locale. Il valenzano inizia a sagomarsi come lingua neolatina, mentre il vero latino rimane un idioma per pochi. Valentia o Valenza non è mai indicata come “oppidum”, città murata. Che non fosse provvista di mura è comprensibile con il suo momento d’espansione.
In un clima d’incertezza, di disgregazione dei valori tradizionali, e in contrapposizione alla lussuria e tracotanza dell’élite romana, anche da queste parti si afferma ormai una minoranza “turbolenta”: i cristiani (considerati per lo più dei sovversivi, per il rifiuto di adorare l’Imperatore). Sarà un dissidio esplosivo. Secondo una certa fonte agiografica, e perplessità relative, Siro (San Siro?) è alquanto presente nella divulgazione della fede in tutta la nostra zona fra gli anni 50-70 dopo Cristo.
L’Impero romano ormai sostiene ininterrottamente una pressione sui confini (dopo il II secolo d.C.), con uno sforzo e un costo immane, con le finanze in sfacelo esso si è impoverito, soprattutto in Italia, non regge più la concorrenza delle province dove si diffondono disordini, guerre, briganti e pirati. Del resto, nella seconda parte del Duecento, si sono affacciati da queste parti gli Iutungi e gli Alemanni, gli Svevi e i Marcomanni. Sono i segni premonitori di una clamorosa resa e di un inevitabile destino. Queste invasioni, condotte inizialmente per finalità di saccheggio e bottino da gruppi armati appartenenti a popolazioni che gravitavano lungo le nostre frontiere settentrionali, si trasformano da semplici assalti in vere e proprie migrazioni d’intere popolazioni, che da nomadi divengono sedentarie una volta conquistato un territorio imperiale. Incombe una gravissima crisi economica e demografica in tutta la zona. È anche un periodo d’epidemie che spopolano le nostre campagne, sempre più povere.
Eppure, all’epoca di Valentiniano III imperatore d’Occidente (425-455 d.C.) e dell’invasione di Attila, con la fine contigua dell’impero occidentale, Valentia è ancora in uno dei presidi romani dell’Italia mediterranea, protetti dalle legioni dei Sarmati (quasi ripiegati all’interno di mura diroccate). Già nel 370 Valentiniano I aveva mandato i vinti prigionieri Alemanni a coltivare queste terre cadute in rovina e con scarsa prole (famoso piano di Bassignana), creando molte contraddizioni e incertezze tra i nostrani.
Passo dopo passo, tra guerre civili, discordie interne e le occupazioni barbare intrise di lacrime e sangue, è un crepuscolo terribile quello che accompagna l’ormai inevitabile fine di quest’era, con il disfacimento del sistema istituzionale esistente. Alla distruzione fisica di Valentia si accompagnerà per lungo tempo l’oblio. Ma è sempre poco corretto e presuntuoso estendere l’etica del presente al passato.