Valenza mille anni fa
Un approfondimento inedito del professor Pier Giorgio Maggiora
VALENZA – Di seguito pubblichiamo un saggio inedito del professore e storico valenzano Pier Giorgio Maggiora.
Alla fine del primo millennio, le terre di Valenza, facenti parte del “feudo” Montisferrati poi Monferrato (forse uno dei primi insediamenti fortificati di questa concessione feudale vassallatica si è originato nella collina di Pecetto di Valenza o a Pecetto Torinese), sono governate da Oberto Visconti di Astiliano, derivante da Aimone (conte di Vercelli dal 950 al 966, discendente da Manfredo IX, un vassallo regio conte di Lomello della famiglia franca dei Manfredigi), che le ha avute in feudo nel 962 (30-12-962) dall’imperatore Ottone I (il grande restauratore del Sacro Romano Impero), ribadite dal vescovo filoimperiale Ingone di Vercelli nel 965. In seguito, nel 988, Ottone III (980-1002, imperatore, re d’Italia) conferma, sempre tramite la chiesa di Vercelli, a Manfredo XI, figlio del conte Aimone, il possesso del territorio della nostra zona.
Manfredi XI e Oberto Visconti di Astiliano sono dei capitanei (milites maiores investiti di benefici da un vescovo o da un principe territoriale) legati da vassallaggio al Vescovo di Vercelli che ha in sostanza il potere su Valenza: per ora tutti connessi con Pavia e Milano (Marca Anscarica, più che a quella Aleramica monferrina). Come affiora dalla tortuosa descrizione, sono soprattutto i vescovi, sovente non troppo misericordiosi, a governare le città.
All’inizio del nuovo millennio, nella “curtis” valenzana (unità produttiva rurale che rappresenta lo sviluppo ulteriore della “villa” romana) le principali famiglie privilegiate di quest’epoca poco conosciuta sono i Visconti, i Ferrari, i Cane, i Colombo, i Cellamonte, tutti derivanti dal parentado dei Visconti (capitanei monferrini). Il borgo di Monte, dall’anno 882, è di proprietà dell’abate di Sant’Ambrogio di Milano (ricevuto in dono, durerà sino al XIII secolo), la signoria di Lazzarone (Villabella) permane nelle mani dei Visconti e dei Sannazzaro.
Dopo il terremoto succeduto alla caduta dell’Impero romano, Valenza (Valentia o più probabilmente Valencia) è lentamente resuscitata in località Colombina, dapprima come agglomerato d’umili dimore poi come apprezzabile nucleo abitativo. Gravato dalla minaccia di popoli forestieri (vedi le più recenti incursioni saracene ed ungare) il borgo Valentia, negli ultimi secoli del primo millennio, si è trasformato in un luogo trincerato, riparato da una grezza barriera difensiva. Nell’attuale piazza Statuto si trova il centro abitato, a lato del quale è situata una chiesa (forse San Massimo).
Le scarsissime fonti storiche ci raccontano che, con un diploma dell’imperatore Enrico II, le parrocchie della Pieve (circoscrizione ecclesiastica minore) di Valenza sono elargite alla Diocesi di Pavia nel 1014. Mentre il dono del presbitero (prete, capo della singola comunità) Pietro figlio di Grosone (presbiterus Petrus) al Vescovo di Pavia di una cappella di pieve nel 1096 (non si tratta di una semplice pieve campestre ma di una cappella di pieve, probabilmente costruita nel nono secolo), già dedicata a Santa Maria, con l’annesso cimitero (il quale rimarrà accanto alla chiesa sino al XVIII secolo), mostra che in questi anni quella che oggi è piazza XXXI Martiri si presenta già incorporata nel nucleo urbano, poiché sopra questa cappella, riedificata nel XII secolo, si ergerà molto più avanti il Duomo della città (Santa Maria Maggiore). La comunità valenzana non appartiene ancora a una “oppidum” o “civitas” ma a una semplice “loco et feudo”.
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Valenza, nei secoli XI e XII richiamerà l’attenzione dei militari, i quali, compreso l’importanza tattica e la sua dislocazione a difesa del Po, avvieranno importanti lavori di fortificazione (mura intorno al nucleo abitato) facendo diventare questa città, nei secoli successivi, una rilevante fortezza, temibile ostacolo a tutti gli eserciti. Inizialmente sorgerà la rocca (un’unica torre quadrata che funge da castello) sul sedime del recente ex macello civico e, successivamente (dopo il XIII secolo) il castello (castrum) vero e proprio, dimora del conte di Valenza.
Sempre all’inizio del nuovo millennio, l’economia locale, prettamente rurale, è sempre più circoscritta nel sistema dei privilegi e soggetta all’esclusivo arbitrio dei signori; lo scambio consiste nella forma elementare del baratto, mentre il lavoro è considerato più come una penitenza, che fonte di miglioramento economico. Cresce la popolazione (in zona sono più di un migliaio i dimoranti), ma per molti valenzani la vita è assai difficoltosa; si subisce con rassegnazione il tutto quasi come una calamità naturale. La promiscuità favorisce il proliferare di parassiti, pidocchi, pulci e acari.
La sofferenza più pungente è però costantemente quella della fame. Il cibo è scarso e di pessimo livello nutrizionale. L’alimentazione é molto sbilanciata e si basa in prevalenza su un’unica vivanda composta con farina di segale (scarso il frumento) che, conservata in ambienti malsani e inadatti, provoca sovente a Valenza la proliferazione di un fungo tossico, l’ergotina, responsabile di una malattia: il fuoco di Sant’ Antonio. L’alimento di base dei valenzani è una specie di pane fatto appunto di segale; scarse le verdure, rarissima la carne. Nei boschi si trovano spesso gli alimenti della dieta: funghi, miele, noci, ecc. Dal Po si trae un’abbondante quantità di pesce.
Le diete dei ricchi hanno una preponderanza d’apporti di proteine primarie (carne), troppo abbondanti e continue, da favorire notevolmente sulla patogenesi individuale (gotta, arteriosclerosi, cirrosi, disturbi circolatori, ecc.), mentre i poveri, costretti dalla morsa economica, non hanno molte possibilità di scelta, sono obbligati ad un’alimentazione più varia e bilanciata (pane, pesci, frutta, ecc.), pressoché ignorata nei ceti più alti. Quasi una rivalsa celestiale.