Valenza negli anni ’80
Proseguono, di decennio in decennio, gli approfondimenti sulla storia cittadina
VALENZA – Negli anni Ottanta, se in Italia trionfa il pentapartito e la lottizzazione, spesso condita di tangenti, nel mondo Occidentale si afferma un neoliberismo conservatore che si affida al mercato e alla concorrenza per rilanciare la crescita. La Cina inizia a produrre magliette e giocattoli di plastica quasi a regalo. Infine arriva l’evento che fa la gloria degli anni ’80: quel giorno del 1989 in cui a Berlino si smonta il muro, seppellendo con esso il comunismo reale e tutto il suo discredito. Valenza vive un decennio politico alquanto turbolento, con una brutta aria d’odio e d’insofferenza.
All’inizio degli anni 80, nascono diversi dissidi fra lo PSI e il PCI; ormai i rapporti tra i due partiti, che governano da molto tempo la città in uno status d’intangibilità, non sono più idillici. Il matrimonio è logoro, con molti bassi e pochissimi alti (la situazione nazionale non aiuta). L’amen è recitato nella seduta consigliare del 17 marzo 1982; i socialisti, con un certo furore, denunciano un comportamento “egemonico” del PCI e si dimettono dalla giunta, dove i comunisti restano soli e isolati al governo monocolore della città. Sono egemoni nei numeri (16 su 30 consiglieri), per una buona dose di fortuna nelle ultime Comunali (45% dei voti), ma politicamente in difficoltà sino alle prossime elezioni.
Si torna alle urne il 27-28 giugno 1983. Per i valenzani ci sono politiche (anticipate) e amministrative comunali. Sono però queste ultime che scaldano l’ambiente e si caricano di veleni. La novità maggiore è rappresentata dal “Polo Laico”, la lista che PRI, PSDI, PLI hanno deciso di presentare congiunti.
Dopo lo scrutinio, le novità sono tante. Secca sconfitta della DC (-6%) che perde 2 consiglieri, passando da 10 a 8. Il PCI perde poco in percentuale (-0,6%), ma non riesce più ad avere la maggioranza assoluta, passando da 16 a 14 seggi. Il PSI guadagna un punto, ma resta fermo a 3 consiglieri. Il Polo Laico, sulle ali dell’affermazione nazionale, centra l’obiettivo di portare 4 consiglieri in Comune, risultando il vero vincitore di questa consultazione. Il Movimento Sociale conquista un seggio che pone in difficoltà la reale possibilità di cambiamento del governo cittadino e, paradossalmente, avvantaggerà il suo peggior nemico, il PCI (i comunisti hanno ottenuto il 45,16%, i socialisti il 12,01%, la DC il 25,09% e il Polo Laico il 13,99). Di fronte a questo quadro l’anima e la psiche svaniscono dalla scena, non c’è più il dissenso ma solo il disprezzo. I comunisti, chiusi sulle carte a studiare come salvare capre, cavoli e cavolfiori, devono scegliere fra due opzioni: calare le braghe (e non è il massimo della reputazione) oppure dire addio a certe poltrone. Alla fine, se ne devono fare una ragione e offrono allo PSI la carica di primo cittadino. I sindaci, passeggeri a bagnomaria, saranno l’esegeta socialista Franco Cantamessa (dall’ottobre 1983 all’ottobre 1984) e il socialdemocratico Gino Gaia (dal 1984).
Tuttavia, a Palazzo Pellizzari la ruggine tra i due partiti rimane. Non si riesce ad approvare il bilancio, finché a fine giugno 1985 la bocciatura diventa definitiva. I 16 voti necessari non ci sono, arriva il Commissario Prefettizio che trova un Comune con le casse vuote e che dispone la consultazione elettorale per il 20-10-1985.
I tifosi della dittatura del proletariato ricevono perciò dal sol dell’avvenire la spintarella finale e in seguito alle nuove elezioni del 1985 (PCI 41,85, DC 30,33%, Polo laico e PSI 20,68%) devono lasciare Palazzo Pellizzari. I socialisti (abbandonate le forme sbarazzine delle tricoteuses) si alleano con democristiani (che finalmente diventano manovratori) e Polo Laico (repubblicani, socialdemocratici e liberali, che nuoteranno assai per non sprofondare) per regnare sulla città: nuovo sindaco, filantropo e socialista, Cesare Baccigaluppi (dal 1985 al 1991).
I comunisti, sbigottiti e quasi turlupinati, terminano di “spadroneggiare”, come sovente capita a chi ha successo da troppo tempo e perviene al punto di sentirsi invincibile.
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Fa spirare qualche sorriso un gruppo dinamico in città, molto vicino all’estrema sinistra operaista (con pochi operai e qualche anarchico), legato ad un progetto politico radicale, che però ha il difetto di assomigliare ad un sogno, fatto di pensieri leninisti-maoisti (più citati che letti).
Il 14 giugno 1987 si tengono nuovamente le elezioni politiche anticipate. A Valenza il crollo dei comunisti (35,8% alla Camera e 37,9% al Senato), è il segno che il vento per loro è davvero cambiato. Nel centro dati Valentia musi lunghi e perplessità: finirà mai questa discesa? Euforici i socialisti per aver superato la fatidica soglia (12,6% alla Camera e 12,1% al Senato), contenti i democristiani per il risultato che li vede aumentare (25,2% alla Camera e 26,2% al Senato), meno contenti i laici (sono quasi un memorandum del loro passato). Ma il risultato più sensazionale è quello missino: quasi mille voti alla Camera. Dal dopoguerra, in questa città, pochissimi sono stati tanto ardimentosi da esporsi così apertamente.
Cresce a dismisura il debito pubblico italiano. Nel 1987 raggiunge il 92% del prodotto interno lordo, nel 1991 sarà del 104%. Anche in questo Comune i quattrini dei contribuenti sono spesi per mantenere i dipendenti, si gonfiano gli organici e non avanza quasi nulla per soddisfare le esigenze dei cittadini. In questi anni nel settore pubblico molti passano dalla nullafacenza alla pensione. Mai nessuno che prenda le forbici.
Il 18 giugno 1989 si va alle urne per l’Europa. La “cosa” di Occhetto non convince i nuovi elettori valenzani e neppure buona parte di quelli tradizionali. Allo spoglio il PCI valenzano con 5.203 voti (35,95%) è ancora in discesa, la DC con 3.671 voti (25,37%) altrettanto, soddisfatto lo PSI con 1.990 voti (13,75%) e più ancora il MSI con 689 voti (4,77%). Male i socialdemocratici, i liberali e i repubblicani. Bene i verdi (488) e la nuova formazione “tribale” con il carisma della verginità: la Lega (399).
I valenzani apprezzano invece tanto certe altre “manifestazioni politiche”: le varie feste di partito (Unità, Amicizia, Avanti). Ristoranti, bar, balli, giochi, ecc. riescono a soddisfare i piaceri estivi dei potenziali elettori.
Negli anni 80, tra la gente comune, cade il principio secondo il quale tutto nella vita è riconducibile alla politica, ossia all’ideologia. Si spalanca un varco nella vita individuale e privata, con un carico di brezza spensierata, di consumi e di piaceri. In Italia questo dettato è preso troppo alla lettera e nello spazio di dieci anni si raddoppia il debito pubblico, dispensando soldi, che non ci sono, a destra e a manca.
Ormai Valenza, in perenne stato di sbronza, vive solo di oreficeria (in crisi strisciante da anni) e il terziario gravita esclusivamente attorno ad essa (commercianti e impiegati). Ciò riveste elementi di grande pericolosità poiché non vi sono sbocchi lavorativi per i giovani.
È finita l’onda lunga dei “baby boom” degli anni 60, si comincia a perdere abitanti e meno giovani si affacciano sul mercato del lavoro: l’apprendistato che nel 1970 aveva circa 1.000 iscritti, nel 1990, con formula diversa, è quasi completamente scomparso. Il reddito medio annuo raggiunge però gli 11 milioni di lire nel 1982 e supera i 19 milioni nel 1987. Una media ancora alta, superiore agli altri centri analoghi.
Questa la popolazione residente occupata nel 1981 e nel 1991: agricoltura 163-159, industria 5.860-5.053, commercio 1837-1.715, credito assic. 244-464, altre 1.115-1.582. Si può pure affermare che negli anni 80 la monocultura economica industriale è diventata sempre più tale. Con scellerate decisioni, in questo decennio, sono allontanate dalla città articolate attività produttive che porteranno lavoro, occupazione e sostanza in altre realtà più attente.
A Valenza, nel censimento del 1981 nel ramo d’attività economica, classe 49, “industrie manifatturiere diverse”, che comprende l’oreficeria, compaiono 1.224 unità locali con 5.805 addetti, di cui 1.173 unità locali artigiane con 5.322 addetti.
L’artigiano orafo valenzano (un proprietario dei mezzi di produzione, ma anche un lavoratore per conto terzi) rimane ora in una posizione poco chiara e definita, dalla quale ricava preoccupazioni, incertezze e responsabilità (fiscali, contributive e giuridiche), si avvale sovente dell’evasione fiscale come mezzo indispensabile alla sopravvivenza.
Se non ci fosse il vantaggio competitivo della frode fiscale (non ancora considerata ruberia verso lo Stato, ma invidiata e quasi rispettata) l’oreficeria valenzana si schianterebbe molto prima di quando sarà. Ma, in questi anni, ci sono tanti piccoli artigiani che pure con l’evasione si garantiscono un tenore di vita mediocre, e a volte ormai decisamente affannato. La loro pare quasi una frode tributaria-contributiva “onesta” in quanto finalizzata alla sopravvivenza di imprese deboli per dimensioni e capacità produttive. Dopo una certa trasmissione televisiva del 1991 (Profondo Nord), sarà quasi una paranoia giustizialista nazionale che disegnerà gli orafi valenzani come mariuoli accidentalmente a piede libero e definirà la città come “l’eldorado degli evasori”.
C’è anche qualcos’altro d’allarmante e doloroso che va confermandosi: una parte della produzione venduta produce sempre più il cosiddetto “bidone”, sono assegni o cambiali date in pagamento, di crediti fiduciari, che non vanno a buon fine.
Nella Mostra del Gioiello, al secondo anno (1979), per esaudire le richieste dei nuovi espositori, si trova una particolare soluzione: due padiglioni a tendoni tensostatici montati in piazza Macchiavelli, di circa 1.500 metri quadrati ciascuno. Ma l’anno dopo, il 1980, ce ne vogliono tre, per un totale di circa 5.000 metri quadrati di esposizione, e nel 1981 quattro in piazza Giovanni XXIII. I visitatori nella nuova struttura aumentano (2.154 nel 1983), ma per diversi operatori valenzani questa mostra è diventata solo un “miraggio” che lascia delusi e scontenti. Un mezzo fra i tanti, che non è poi così utile in un’organizzazione aziendale come quella valenzana, non troppo adeguata a certi tipi di commercializzazioni.
A fine decennio 80 si manifesta una diminuzione di circa il 30% anche nell’esportazione. Il calo maggiore si registra sul mercato americano e su quello mediorientale, per motivi economici (calo del dollaro e meno petrodollari) e per la sempre più agguerrita concorrenza internazionale. Sempre crescente è anche il numero d’imprese orafe che si collocano nei paesi limitrofi (Mede, San Salvatore, ecc.).
Negli ultimi anni 80 gli orafi valenzani non possiedono quasi più quella sicurezza che era stata una delle prerogative principali degli anni passati, quell’arditezza sostenuta dalla propria bravura produttiva e da una crescente domanda di mercato, più che da reali capacità imprenditoriali e organizzative. Arroccati nella presunzione che la produzione degli “altri” è scadente, copiata, e che loro sono i più bravi, molti orafi valenzani, restano ancora convinti che i consumatori ritorneranno ad acquistare. Negli anni ’90 la soluzione “funesta” sarà la chiusura di molte aziende, le sospensioni e i licenziamenti delle maestranze.
Ancora più drammatica è la crisi nel compartimento pelle, cuoio e calzature. Un settore, ormai condannato alla marginalità, dove si producono beni finiti, operando direttamente sul mercato di destinazione e di consumo. Le pochissime aziende rimaste sono le superstiti di una spietata selezione naturale. Collocare i prodotti valenzani si fa ogni giorno più difficile. Soprattutto perché i costi stanno crescendo a vista d’occhio a causa delle materie prime (provengono dall’estero, pagate in dollari) e della manodopera (quasi il 50% del costo del prodotto). Verso la fine degli anni ottanta anche diversi paesi sottosviluppati diventano antagonisti sulla quantità proponendo sul mercato prezzi talmente bassi che diventa impossibile competere. Un altro grosso handicap, per le rare aziende rimaste, è il reclutamento della manodopera che a Valenza è in pratica impossibile: nessuno vuol fare il calzaturiere, sentono questa professione come una specie di servitù della gleba.
Nel 1980, oltre ai piani di attuazione delle tre aree produttive, la D2 (orafa), la D3 (artigianale), la D4 (industriale), esistono due PEEP. L’uno, di 51.800 metri quadrati, verrà utilizzato in regione Faiteria, l’altro, di 304.000 metri quadrati, è destinato a diventare un paese autonomo al margine ovest della città in regione Fogliabella. Nella zona di edilizia popolare di regione Faiteria si è predisposto un progetto che in tre anni porterà alla costruzione di metà degli 80 mila metri cubi previsti, atti ad ospitare 800 persone, completi di servizi e spazi verdi.
Negozi e botteghe costituiti per lo più da piccolissime strutture, con al massimo uno o due dipendenti, pagano la crisi e a caro prezzo. Le cause sono evidenti quanto risapute: l’alta imposizione fiscale, l’insopportabile costo del lavoro, l’implacabile burocrazia e lo spadroneggiare della grande distribuzione organizzata. La piccola bottega sembra destinata a finire sull’album dei ricordi. A fine anni 80 i generi alimentari sono per l’80% acquistati nei supermercati. Peraltro, chi viene a lavorare a Valenza non acquista in città: ricevono denaro ma non lasciano quasi nulla.
La concentrazione della domanda di preziosi ha creato anche i presupposti della nascita di molti negozi d’oreficeria in loco, sintomo di una febbre e di una trasformazione del sistema distributivo che cerca sfoghi compensativi nella vendita diretta al consumatore terminale del prodotto. Sono sempre di più, hanno sloggiato salumieri, panettieri, verdurai con buonuscita di tanti milioni, si avvicineranno al centinaio nei prossimi anni; per ora (fine anni 80 sono una settantina) ottengono buoni profitti, specialmente nel periodo natalizio. Sono molti i non residenti che nel fine settimana invadono le vie di questa città alla ricerca di tesori a prezzi stracciati, nella loro fantasia s’immaginano di trovare un eden terrestre, mentre è curioso che, dopo il cartello stradale con la scritta Valenza, anziché un luogo paradisiaco, si trovano accerchiati da erbacce, più consone ad un paesaggio rurale che non ad una città gioiello.
Queste le principali attività registrate in città nel 1982: produzione orafa aziende 1.208 – addetti 5.734, commercio orafo 333-966, produzione calzature 27- 550, edilizia 57-182, ospedale 1-167, Comune 1-130, parrucchieri 76-126, autofficine 23-122, bar 42-125, negozi alimentari 42-125, laterizi 2-74, studi comm.di consulenza 18-80.
Il sindacato, tanto battagliero nel passato, funziona ora per altri scopi. Tanti nonnetti valenzani chiedono aiuto per non morire tra le carte della burocrazia (assistenza fiscale, contributiva, ecc.). Ma il rischio è ormai quello del burocraticismo, del sindacato d’apparato, visto dall’iscritto come “ufficio di servizi” che si paga e dal quale si pretendono certe prestazioni.
Questi i titoli di studio dei residenti nel 1981 e nel 1991: analfabeti 223-175, analfabeti privi di titolo 3.017-1.819, con licenza elem. 10.222-7.603, con media inf. 5.611-6.814, con media sup. 1.953-3.665, con laurea 291-476
Da una ricerca effettuata nel 1991, su un centinaio d’aziende, emerge che le malattie professionali degli orafi valenzani risultano essere soprattutto l’artrosi cervicale (24% degli uomini e 28% delle donne) e il mal di schiena (25% degli uomini e 36% delle donne). Dati allarmanti se si pensa alla giovane età degli intervistati (media 35 anni) e a quelli nazionali che sono inferiori di quasi la metà. Invece il principale dilemma d’ordine sanitario per Valenza, in questi tempi, è la proposta di chiusura dell’ospedale cittadino, poiché nosocomio considerato non necessario, avendo soltanto 124 pazienti medi giornalieri con media della durata di degenza di 8 giorni. La città si mette in subbuglio e fa baluardo contro il provvedimento, si raccolgono migliaia di firme, si tengono numerose assemblee, scritte, marce, ecc. Sarà una via crucis che proseguirà sino a tempi più recenti, senza successo. Ma forse oggi, trasformando l’allarme in un’opportunità, il maledetto coronavirus potrebbe cooperare alla rinascita.