Il Re di Banane
C’era e non c’era una volta un re di un piccolo regno.
Il re si chiamava Benaomail, ed era il monarca assoluto di Burmashav, un fazzoletto di terra steso tra il deserto che non ha nome e la cordigliera che nessuno ammira.
Benaomail spendeva per sé i più gradevoli elogi. Diceva di essere il più grande condottiero che la storia umana ricordasse. E questo non lo sosteneva unicamente a parole, ma aveva preteso che fosse trascritto a caratteri d’oro sopra i sussidiari di tutte le scuole di Burmashav.
Benaomail il Conquistatore, è così che si era autoproclamato, almeno da quando aveva occupato le terre limitrofe di Uagalidaul, così da rendere tecnicamente Burmashav un impero. E non importa che le terre di Uagalidaul non fossero altro che un quadrilatero spelacchiato senza un’anima viva né un filo d’acqua che nessuno si sarebbe mai sognato di reclamare.
Benaomail non sapeva più cosa inventarsi per glorificare il proprio nome agli occhi dei propri sudditi, contrassegnati peraltro da un diffuso sguardo vitreo. Dopo aver fatto obbligo ai propri preti di integrare le formule religiose, in modo da farle principiare con la regola di fede “Non vi è altro dio all’infuori di Allah, Maometto ne è il profeta e Benaomail è la loro sintesi”, e dopo aver fatto riempire il suo minuscolo dominio con la propria effigie, tra cartelloni, statue, dipinti, fotografie, ritratti sulle banconote di ogni taglio, sembrava quasi che la sua inventiva si fosse esaurita. Fino a che non prestò attenzione a un mazzo di carte, durante un pomeriggio trascorso a oziare nella stanza degli svaghi interna al palazzo reale.
Il mazzo, come tutti i mazzi, conteneva quattro re, uno per seme. Il re di denari, come noto, rappresenta Cesare, il re di fiori è Alessandro il Macedone, il re di cuori è Carlomagno e, per finire, quello di picche è il re David. Mentre sovrappensiero mischiava le carte gli venne da pensare che giusto un re mancava a quel mazzo, come a tutti gli altri mazzi, perché fossero completi. Il re più grande di tutti, la cui identità non sto neanche qui a specificare.
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Per poterlo inserire inventò un nuovo seme: le banane, visto che le adorava. Praticamente non deglutiva alcunché che non ne contenesse anche solo una minima percentuale: pudding di banane, arrosto di porco con banane, torta di banane, frullato di banane. Anche il suo dentifricio aveva quel gusto. Gran parte dei ricavi dello scarso prodotto interno di Burmashav veniva reimpiegato per l’importazione di banane, siccome lì non ve n’era traccia e ogni tentativo di farle attecchire, nel passato, era risultato vano.
Sulla carta da gioco era stato ritratto lievemente abbellito: lì aveva entrambi gli occhi e soffici capelli veri, al posto del parrucchino di peli di scimmia che portava nella vita reale.
Per mostrare a colpo d’occhio quanto lui, Benaomail, sovrano burmashavita, sopravanzasse per grandezza i suoi omologhi nel mazzo di carte, aveva ordinato che tale resa fosse letterale: la carta del re di banane era di un terzo più lunga e più larga delle carte degli altri re, e di tutte le altre carte in generale, questo per decreto, con validità su tutto il suolo nazionale. Il decreto sanciva altresì che il valore della carta fosse superiore a quello delle altre carte di re di dieci punti tondi tondi. Il problema è che se qualcuno aveva in mano un re di banane era difficile nasconderlo all’avversario, considerata la sua sproporzione rispetto agli altri elementi del mazzo. Era diventato impossibile barare o bluffare.
Alla fine il povero Benaomail venne ucciso in una congiura di palazzo, organizzata da un gruppetto di pokeristi incalliti.