Personaggi valenzani: Beato Gerardo Cagnoli
VALENZA – Il Beato Gerardo Cagnoli è una pia figura carismatica e di spicco per questa città che, in qualche modo, offusca anche il patrono San Massimo, in un mix fra mito e realtà addentro un Basso Medioevo percorso da malinconie antiche e predizioni future.
Nato a Valenza, probabilmente nel 1267 (1268?), da famiglia agiata e intimamente cristiana che lo forma in modo solerte per mezzo di dotti precettori. Anche i genitori si interessano dell’educazione umana e religiosa del figlio, il quale trascorre la prima infanzia nell’inesauribile amore dei suoi cari. Tuttavia, nella formazione della sua personalità influiscono, in modo determinante, le circostanze dolorose in cui viene a trovarsi. All’età di dieci anni perde il padre e trova consolazione nel prendersi cura con affettuosa assistenza della madre, malata di tisi, sino alla sua morte avvenuta nel 1290 (certi fonti indicano il 1280 circa). È nella prima chiesa di San Francesco (eretta a cominciare dal 1239 e rifatta nel 1322) che si forma il fremito religioso e l’irremovibile spirito d’umiltà di Gerardo.
Alto, aggraziato, avvenente, cortese nelle parole, libero e padrone totale di un ricchissimo patrimonio, inizia ben presto a dar segno di quella santità cui sarebbe poi pienamente arrivato. Lascia la vita agiata e sceglie un’esistenza di povertà, vende palazzi e beni e destina il ricavato ai poveri e ad opere di carità, facendo scandalo fra i parenti e i conoscenti.
Vive da pellegrino, mendicando il pane e visitando i santuari. Si trasferisce a Roma e poi a Napoli dedicandosi sempre ai sofferenti ed ai bisognosi. Si ritira in un convento francescano a Randazzo in Sicilia, alle falde dell’Etna, dove svolge il suo noviziato tra i primi inspiegabili fenomeni miracolistici. I monaci che appartengono a quest’ordine praticano l’umiltà, la povertà, la carità e la loro vita prende come esempio quella di Gesù Cristo.
In seguito, essendosi sparsa la fama dei miracoli che ha compiuto, viene trasferito al convento di San Francesco a Palermo, dove vive per trentacinque anni, sino alla morte avvenuta il 29 dicembre 1342 (certe fonti attribuiscono il 1343 o il 1345), conducendo una vita di dura penitenza e di preghiera, secondo gli ideali di stretta povertà evangelica, di aspra mortificazione e di ritorno alla purezza originaria della regola francescana. Si nutre di pane e acqua, possiede una sola tunica parecchio usurata, si sposta nel monastero a piedi nudi e pare che tormenti la sua carne con flagelli.
Gode già in questi tempi strambi della nomea di guaritore e di santo; si afferma che sia dotato di ispirazione profetica, tanto che il convento francescano di Palermo diviene meta di pellegrini che giungono da ogni parte per chiedere al pio frate conforto e consolazione.
Emana un’aura magnetica, con un rametto di cipresso immerso nell’olio di una lampada, che arde in continuazione, benedice i malati che vanno da lui in cerca di conforto. La frase rituale che adopera per benedire è: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per intercessione della Vergine Maria, di San Francesco e di San Luigi, sii liberato da questa malattia”. Molti sostengono di essere perfettamente guariti, altri di aver ricevuto un particolare miglioramento, sicuramente per tutti rilevanti conforti. Il contatto con l’ardente carisma spirituale di questo archetipo di vita cristiana favorisce innumerevoli conversioni, rinascite spirituali e chiamate vocazionali.
Per il popolo del medioevo il credere è più determinante del conoscere. Nella generale condizione di precarietà e di incertezza del periodo solo la fede rende conforto e speranza, anche se si tratta di un sentimento religioso semplice ed ingenuo, zeppo di superstizioni e false credenze. I monaci tengono unita la gente attorno a loro con queste convinzioni sacrali.
Quando ancora è in vita, pure a Valenza lievita una particolare devozione verso il suo illustre conterraneo; alcuni ferventi cattolici valenzani si recano perfino a Palermo per ottenere intercessioni che in questi tempi non è un viaggio da poco.
Dopo la sua morte, la devozione verso di lui si estende in tutta Italia. Si raccontano molti eventi straordinari accaduti nella circostanza della scomparsa; fatti prodigiosi e straordinari compiuti per sua intercessione tanto da destare enorme venerazione e culto. La sua tomba, nella chiesa di San Francesco di Palermo, diventa meta di pellegrinaggio per molti devoti.
Un francescano pisano dell’epoca, Bartolomeo Albizi, è tra i più solleciti e fantasiosi divulgatori del culto del beato: a lui si debbono sia la Legenda sancti Gerardi sia il Tractatus de miraculis, che rappresentano le fonti più particolareggiate e più autorevoli sulla vita e sul culto del Cagnoli. Nel 1346 l’Albizi organizza grandi festeggiamenti per la traslazione di una reliquia del beato a Pisa.
Durante l’invasione e il saccheggio di Valenza da parte dei francesi nel 1557, si ritiene sia scomparsa dalla chiesa di San Francesco la reliquia di “tutta la mano et braccio dritto fino al cubito”, ricevuta da Palermo dopo la sua morte. Il frammento sacro era rinchiuso in una custodia d’argento in forma di braccio insieme ad anelli d’oro e cucchiaini d’argento.
Il processo di canonizzazione è aperto solo nel 1622 e interrotto nel 1630, ripreso il 18 giugno 1888 a Palermo dove si conclude il 31 maggio 1889. Ripreso nel 1905, il 31 maggio 1908 Pio X riconosce come beato questo protagonista claustrale di pura origine valenzana, e ne fissa la ricorrenza al 29 dicembre.
Oggi, spogliato di certa regalità celestiale, nel Museo del Duomo di Valenza si conserva un’altra Reliquia che, con un certo fascino evangelico e apologetico, è custodita in un prezioso busto. Pare sia l’osso del gomito, estratto nel 1592 (altre fonti riportano il 1552) dal sacrario del Cagnoli nel convento di Palermo e consegnato ai Frati minori di San Francesco di Valenza, dove si è poi continuato a celebrare con grande magnificenza la festa del Beato fino alla soppressione di questo luogo religioso nel 1802 e la cessione della reliquia alla Chiesa Parrocchiale. Si parlò ambiguamente di una terza reliquia donata nel 1736 alla confraternita di San Rocco che per molto tempo ne celebrò la festa.
Sempre in Duomo esiste un altare a Lui dedicato ed è il quarto nella navata di sinistra. Una tela del pittore alessandrino Lorenzo Laiolo ritrae l’apparizione della Madonna al Beato. Il 3 gennaio cade la memoria liturgica mentre in città si celebra alla terza domenica di gennaio come festa del volontariato laico.
Valenza ha intitolato un vicolo al nome del Beato Gerardo che si presume in prossimità della casa natale, forse a suo tempo in piazza del Pozzo e dell’Olmo. È in zona Colombina e si accede da via San Massimo.
Parti della vita del beato che abbiano riportato, fossero interamente veritiere o enfatizzate non lo si saprà mai. Un po’ lo si deve mettere in conto quando si raccontano esistenze così lontane. Ma la statura di questo figlio di Valenza è forse anche nella sua inattualità, difficile da emulare ai tempi nostri più consoni a personaggi contraffatti e opportunisti.