Primo appuntamento
Alla fine ho scelto un locale niente male. Ci sono stato dietro un mese e passa per ottenere la prenotazione, ché io telefonavo, poi a volte mi vergognavo di parlare e allora, beh… mettevo giù. E poi richiamavo. Dopo. E se mi diceva: «La metto in lista, richiami, così le dico appena si libera un tavolo per due,» io replicavo: «M-ma n-no g-guardi… N-non v-vorrei d-d-disturbare…». E quell’altro: «Nessun disturbo, si immagini,» e allora il calvario ricominciava da capo a dodici…
Ma tutto questo a lei non sto a dirglielo, ché poi sembra quasi che mi vanti del posto e ci recupero pure la figura di quello che rinfaccia il ristorantino di lusso in cui la porto e i soldi che ci devo smenare… Tanto lo vedrà da sola quant’è bello lì e non ci sarà bisogno di aggiungere un bel niente.
Sarà una quarantina di minuti che aspetto che scenda. Mi sono già bevuto quasi tutto il cd nuovo dei Maneskin nell’attesa, ma quando arriva non è che sto lì a rimproverarle qualcosa. Voglio mica che pensi che sono uno che non ha pazienza, ché alle donne quei tipi lì piacciono poco.
Eccola! Uau! Si dev’essere fatta il bagno nel profumo…
Entra in macchina sbattendo la portiera, che è già mal piazzata di suo e dandoci delle botte di ’sta maniera va a finire che devo sostituire di nuovo il pezzo, ma lascio perdere e dico niente. Se no questa mi prende per uno di quei precisini che non li soffre nessuno.
Mi fa: «Ciao!». Vorrei risponderle “Ciao” anch’io, ma poi penso che non mi va di darle una risposta così scontata e mentre ingrano e parto cerco qualcosa di un po’ più originale da tirare fuori e far subito colpo, ma pensa che ti ripensa, siamo già a metà strada e non mi è ancora venuto in mente niente.
La strada è lunga, ci mettiamo un quarto d’ora per arrivare sino al ristorante, che è in una vecchia cascina riattata un tantino fuori città, ma non sto a dirle sin dove dobbiamo andare, ché poi sembra pure che mi voglia lamentare della troppa strada da percorrere, come se la colpa fosse sua, allora me ne sto ben zitto, che non si sbaglia mai.
Sinché, dopo un po’ di quel silenzio tombale, lei mi fa: «Tu non sei uno che parla molto, eh?!».
«Ciao!» le faccio io allora, per tutta risposta, perché nel frattempo non mi era ancora balenato niente di meglio…
Arriviamo, sistemo la macchina nell’ampio parcheggio. Scendo senza profferire parole perché non vorrei mai dare l’idea di parlare giusto per chiamare i complimenti per averla portata lì senza fare neanche un incidente. Piuttosto, se proprio ci tiene a lusingarmi con qualche bella parola, che sia lei a farlo spontaneamente! Non mi piace gloriarmi dei miei successi. Preferisco siano gli altri a farlo, io. Anche se di solito, beh, non lo fanno. Neanche lei, infatti, che rimane a becco chiuso, seduta in macchina, come se si aspettasse qualcosa. Anche quando faccio il giro della vettura e la guardo attraverso il finestrino. Resta lì dentro. Magari vuole che le apra la portiera? Nah, non mi pare proprio il caso. Poi pensa di trovarsi davanti uno di quei tizi antiquati pieni di sdolcinatezze romantiche che alla fine vengono a nausea. Allora preferisco gridarle: «Ooooh!» e farle segno di scendere, siamo arrivati. Mi pare più da macho, in effetti.
Lei cala giù un po’ scocciata, così, a occhio, ma sicuramente è un’impressione. Sbatte la portiera. Aridàgli!… Quando mi è affianco punto la chiave verso la macchina, come per attivare la chiusura centralizzata a distanza. Ma non appena mi supera, dirigendosi verso l’entrata sui suoi bei tacchi 12, non visto corro a chiudere le due portiere, facendo veloce tutto il giro, in maniera che non si accorga che la chiusura a telecomando la mia auto non ce l’ha, ché poi ci rimedio pure la parvenza del morto di fame sedinò…
Una volta dentro ci viene incontro il maestro di sala. «Buonasera, signori,» ci fa, «Felice di avervi tra i nostri ospiti. Io sono il maître». “Ah, e io che avrei detto fosse addirittura un maître e ottanta!” mi verrebbe da rispondergli, ma poi taccio, ché a fare troppo gli spiritosi non ci si guadagna mai.
Ci accompagna al nostro tavolo, ci sediamo. Ci lascia qui da bell’e soli per andare a prendere i menu. Restiamo faccia a faccia. Lei mi guarda. Potrei dirle quant’è bella stasera, col nuovo taglio e quell’aria lucente in viso, ma preferisco soprassedere per paura che mi pigli per uno di quegli allupati che ci provano subito e non pensano ad altro. Lei continua a guardarmi e io potrei dirle che è bello trovarsi qui noi due, ma poi penso che va da sé che è bello altrimenti non l’avrei invitata e se glielo ribadisco pure magari va a pensare che sono un pedante che ama dire cose che già si sanno. Lei mi guarda, sempre più severa. E io… vado in panico. Vorrei trovare qualcosa da dirle, ma tutto mi sembra o superfluo o fuori luogo. Allora comincio a giochicchiare coi grissini che ci hanno appena portato sul tavolo, nel cestino intrecciato. Ma per l’emozione li spezzo in tanti piccoli segmenti, che poi si impastano con le mie mani sudaticce, facendo un pasticcio da cui mi ripulisco con difficoltà, imbrattando tutto il tovagliolo in organza. Lei intanto mi guarda con schifo.
Ci mettiamo a leggere i menu. Mi piacerebbe raccomandarle la tagliata di fassona, che dicono qui facciano da dio, ma non mi garba l’idea di passare per il saputello di turno. E anche quando lei mi comunica: «Sono proprio indecisa. Tu che cosa mi consiglieresti?» io mi cucio le labbra. La guardo fisso. Sento che gli occhi mi si sgranano e la fronte mi si imperla di sudore. Alla fine, dopo cinque minuti che mi guarda in quello stato, arricciando involontariamente il labbro superiore, ordina una scaloppa al limone con contorno di patatine. E sbuffa.
Arrivano le portate, dopo un’interminabile e silenziosa attesa, passata lei a rimirarsi le unghie, io a leggere e rileggere il monogramma cucito sui tovaglioli con la stessa intensità di un critico letterario che vada a scovare tutte le diverse interpretazioni possibili del Finnegans Wake. Ciondolo anche la testa, in segno di approvazione, mentre per l’ennesima volta guardo le iniziali del locale ricamate sulla stoffa.
Lei, dopo un lungo sospiro, torna a rivolgermi la parola: «Allora… Dimmi qualcosa in più di te». Mi sorride, anche se con poca convinzione. Io vado in crisi. E che le dovrei dire ora? Le scuole che ho fatto? La mia infanzia? Il lavoro? Così, a colpo d’occhio, non trovo niente di niente di interessante da dirle della mia vita. Tutto quello che mi salta in mente, se glielo raccontassi, mi viene da pensare che mi farebbe apparire ai suoi occhi come un barboso e insignificante babbeo. Allora mi riempio la bocca di cibo. Ecco! Me la rimpinzo a forchettate. Come un ossesso. «Fame!» è l’unica cosa di cui la informo, per giustificarmi. Lei emette un «Aaaaah!» scazzatissimo, subito prima di aggredire il piatto che ha davanti.
La serata scorre liscia, come si dice in genere, anche se in realtà scorre tesa, a essere sinceri… Finito il secondo le domanderei pure se vuole il dolce, ma poi so già che pensa che le voglio dare della golosona bulimica dai forti disturbi alimentari e a nessuno piace essere giudicato per le proprie debolezze…
Rimango così, imbambolato, gli occhi fissi verso il soffitto, mentre continuo a passare e ripassare la punta del tovagliolo intorno agli angoli della bocca, sino a screpolarmeli quasi, nella speranza che questa mia posa fissa mi renda bello ai suoi occhi.
«Sei cretino?» mi butta lì lei a bruciapelo, «Sei cretino o sottosviluppato?». Mah! Se ancora le sto a dire che non sono cretino sembra quasi che mi voglia vantare del mio quoziente di intelligenza, e alle donne – poco ma sicuro – non piace mica se ti metti in gara con loro sul piano intellettivo. Se poi le spiego che non sono sottosviluppato, sembra quasi che voglia affermare il contrario, sottintendendo qualcosa di sessuale e se sente così si spaventa pure, secondo me… Scelgo la soluzione migliore: mi metto a ridacchiare senza un motivo apparente. Così, tanto per uscire dall’imbarazzo. E più lei mi punta addosso quello sguardo infuriato più stupidamente rido io.
Finché a un bel momento, che in realtà è un momento così così, scosta la sedia con un colpo di culo, si alza in piedi con uno scatto, raccoglie la borsetta dal tavolo e va via senza neanche salutare. Non so come prenderla. È un buon segno? Mah! Io intanto, per non sbagliare, continuo a ridacchiare senza ragione.
La sbircio ancora là fuori, ferma sulla porta. Sarà uscita a fumarsene una? Prende il telefono. Chiama. Sarà per raccontare in diretta la bella esperienza a un’amica? Arriva un taxi. Ci monta sopra e partono. Torna?
Va beh va, meglio così, anche se non torna. Almeno rincaso tranquillo tranquillo senza dover più fare dell’inutile conversazione a tutti i costi. Tanto si sa che la prima sera non si conclude nulla….
Poi domani la chiamo, mattina, o pomeriggio magari, o anche alla sera che è più calma e sento un po’ se le è piaciuta l’uscita di stasera… Ma magari poi, quasi quasi, aspetto che mi chiami lei, ché poi, se le telefono io, è facile che non sappia bene cosa dirle…