Eccidio di Villadeati: l’orazione ufficiale di Sergio Favretto
Il saggio dello storico monferrino in occasione della commemorazione di ieri
VILLADEATI – Nella mattinata di ieri Villadeati ha ricordato gli 11 cittadini vittime dell’eccidio operato dai nazi-fascisti il 9 ottobre 1944 proprio nel comune della Valcerrina.
Alla messa di commemorazione, nella piazza che porta il nome del tragico episodio, è seguita quindi l’orazione ufficiale dello storico monferrino Sergio Favretto.
L’orazione di Favretto
Nell’autunno del ‘44, fase accesa di guerriglia e controguerriglia tra tedeschi-fascisti e partigiani, si colloca l’eccidio di Villadeati fra le colline del Monferrato. Il fatto tragico divenne, subito, emblema di un contesto aspro di lotta, ma anche di un’irrazionale e sproporzionata sete vendicativa sulla popolazione civile. La ricostruzione della rappresaglia, con l’uccisione del parroco don Ernesto Camurati e dei 10 suoi parrocchiani abitanti a Villadeati (il decimo venne ucciso il 24 ottobre da altra rappresaglia), ci permette di cogliere quanto fosse stretto il legame fra clero e popolazione, fra parroci e formazioni partigiane.
Il 9 ottobre un contingente di tedeschi, al comando del maggiore Wilhelm Meyer, comandante la Piazza di Casale ed inserito nel Kommandantur 1014 del colonnello Becker, salì dalla strada di Moncalvo-Odalengo Piccolo verso la località Tribecco. Qui, in due cascine e fra i boschi, da tempo si erano accampati e organizzati i partigiani della Divisione Autonoma Monferrato, alcuni gruppi spontanei.
Nel cascinale vi era il Comando, alcuni scarsi alloggiamenti, una cucina, un dormitorio, una stanza per il tribunale, alcuni depositi. Li guidavano l’ex capitano dell’esercito Pietra Angelo (detto Pontini) ed il vicecomandante Alberto Dellavalle (detto Giusto), con il commissario di Divisione avv. Carlo Schindler, con il nome di battaglia ‘Carlo o Dornero‘, di origine genovese.
Quel giorno, un lunedì piovoso d’autunno, alle 8 del mattino, il contingente tedesco iniziò a sparare verso il colle Tribecco; vi erano ventiquattro automezzi militari, dotati di armi leggere e mortai; più di trecento soldati guidati da Meyer ed un tenente delle SS, molti fascisti locali. Non trovarono i partigiani, perché nella notte avevano lasciato la sede, intuendo il rischio dei rastrellamenti. Nel paese restarono solo donne, bambini ed anziani, alcuni agricoltori, ancora impegnati nella fase della post vendemmia.
Il Tribecco è uno dei colli più alti del sistema collinare del Monferrato (450 metri sul mare). Nei pressi, in località La Balma, a fine ’43, si rifugiarono alcuni prigionieri inglesi scappati dai campi di concentramento. La popolazione di Villadeati li coprì, diede loro viveri ed abbigliamento; offrì lavori saltuari. A Tribecco, i tedeschi misero tutto sotto sopra; con i lanciafiamme incendiarono la base dei partigiani. Lungo la strada fra Odalengo Piccolo e Tribecco avevano già incontrato la signora Vanna Baldassarri, vedova di Alfredo Tedeschi (stimato avvocato), proprietaria della cascina di Tribecco affidata ai partigiani.
La catturarono e la condussero fino a Tribecco; qui dovette assistere alla distruzione della cascina; le fu asportato dal portafoglio tutto il ricavato dalle vendite delle uve. Fu salva solo perché, all’interno della cascina, videro una foto di gerarchi fascisti. La spedizione tedesca si diresse allora verso l’abitato di Villadeati.
Valentina Camurati
Ricostruiamo questi momenti, grazie alla testimonianza della sorella di Don Ernesto Camurati, parroco del paese e ucciso assieme a nove capifamiglia[1]: «Quel giorno i tedeschi si erano fatti sentire prima in quel di Tribecco – ricordò Valentina Camurati – e poiché non avevano catturato nessuno, piombarono anche a Villadeati. Le case furono messe sottosopra. I viveri portati via con prepotenza. Le stalle spopolate dai vitelli e mucche; alcune bestie uccise e caricate sui camion. Gli abitanti vennero radunati in piazza. Il comandante tedesco scelse nove tra i capifamiglia. Ad essi venne aggregato mio fratello, Don Ernesto.
Aveva appena terminato di celebrare la messa e usciva dalla chiesa. Rubarono carte e documenti in canonica, la chiave del tabernacolo. Fatto il gruppo, un plotone di tedeschi li uccise. Si rifiutò di rivelare i nomi dei parrocchiani partigiani e il nome del loro comandante. Prima che il mitra spegnesse la voce di Don Camurati si udì per tre volte: ‘Tutti siamo innocenti. Ma uccidete me solo. Lasciate andare a casa questi che sono capifamiglia’».
Ondina Maioglio
Più dettagliato ed articolato il ricordo di Ondina Lachello Maioglio; aveva ventidue anni al momento dell’eccidio; era in attesa di un bimbo da pochi mesi[2]. «Subito non ci rendemmo conto. Gli spari e la violenza dei tedeschi ci sembravano quelli consueti di altri rastrellamenti. Non credevamo nell’ipotesi di una fine così crudele. In pochi minuti eravamo in preda al terrore. Nelle case c’eravamo noi donne ed anziani. I tedeschi saccheggiarono casa per casa; erano tantissimi e violenti.
Ci rubavano cose, soldi, viveri, animali, vestiti, vino, i pochi gioielli. Dato il mio stato di gravidanza, mi fu impedito, da un’amica, di vedere; fui obbligata in casa. Dietro un muretto ed una siepe, vidi poi un drappello di tedeschi che conduceva l’amato parroco Don Camurati. Intravidi il fiocco del suo tricorno. Speravo ancora nella sua capacità d’intercedere per la liberazione».
Dopo aver saccheggiato tutto il paese, i tedeschi radunarono in piazza una cinquantina di uomini, quasi tutti capifamiglia; si portarono poi al rondò di San Remigio, ai piedi del paese, in uno spiazzo fra tre strade. Qui Meyer minacciò l’uccisione di dieci civili, se entro le ore 12 non fossero stati resi noti i nascondigli dei partigiani.
Un gruppo di tedeschi, nel frattempo, catturò Don Camurati nella chiesa parrocchiale; in canonica, misero sottosopra tutto; la sorella Valentina non potè far altro che indicare la chiesa. Don Ernesto pregava ancora. Meyer occupò una casa del paese; qui interrogò Don Camurati.
Il Maggiore Meyer
Alcuni testi parlano di Meyer come un ufficiale, alto, in divisa da Wehrmacht o da Flak, di forse quarant’anni, non delle SS, né della Polizia tedesca. Don Camurati argomentò di non conoscere i nomi dei partigiani; difese la gente di Villadeati, come gente operosa e dedita alla famiglia ed alla pace. Meyer fu irremovibile. Definì ‘ribelle’ anche Don Camurati.
Di fronte al gruppo radunato, il maggiore additò uno per uno i predestinati alla fucilazione, compreso don Camurati, seguendo le indicazioni di Ernest, il tedesco-partigiano traditore. Creò un gruppo di persone. Venne poi graziata la signora Baldassarri; il fornaio Vincenzo Gippa ed Edoardo Druetto, vennero salvati per un intervento del generale Botto, pensionato a Villadeati.
Il generale Botto
Botto era un noto ufficiale dell’Aviazione Regia; partecipò anche alla guerra di Spagna; fu ferito in combattimento; con la RSI venne nominato sottosegretario del Ministero dell’Aviazione; nel ’44 venne congedato e si stabilì a Villadeati. Lo storico casalese Idro Grignolio (1922, militare nell’aviazione) ricorda di aver saputo dalla Baldassarri che Botto chiese a Meyer di salvare i civili catturati a Villadeati; offrì l’amputazione dell’altra gamba in cambio. Ottenne solo la liberazione dei due più giovani. Gippa Luigi (1922), panettiere di Villadeati, è stato un significativo testimone dell’eccidio. Era allora, attendente e autista del generale Botto. Quando giunsero i tedeschi in paese ed attuarono la perquisizione-rappresaglia, Gippa si trovava in casa di Botto. Il maggiore Meyer entrò, con prepotenza.
«Ricordo molto bene ciò che avvenne – ci dice Gippa – Botto invitò il maggiore a non infierire sulla gente inerme, si offrì come ostaggio, offrì il taglio dell’altra gamba. Meyer non volle ascoltare, disprezzò ogni ragione di Botto. Accettò solo la richiesta di salvare mio padre Vincenzo. In quei momenti, non sapevamo che, fra i civili scelti per la fucilazione, vi fosse anche mio zio Clemente Gippa, che venne invece ucciso.
Botto tentò ogni modo per scongiurare l’eccidio. Non assistetti alla fine di Meyer. Giunsi in paese, quando la vendetta si era consumata, per opera di un partigiano locale. Ricordo, invece, come nella notte, per curiosità, andai in bicicletta sul lato destro del cimitero, dove mi avevano riferito essere stato sepolto Meyer. Vi giunsi e vidi, dalla terra ancora smossa, spuntare un pezzo di gamba del maggiore. Rimasi scosso e ritornai velocemente a casa».
Furono attimi tesissimi; alcuni testimoni narrarono che si udirono grida disperate, invocazioni verso i familiari. Il parroco chiese al maggiore Meyer un gesto di umanità e di permettere un ultimo abbraccio. Un sottotenente delle SS lo respinge e lo invitò ad iniziare le preghiere. Don Camurati benedice, apre il breviario e prega. I fucili automatici eseguono l’eccidio. Resta un groviglio di corpi e sangue. Erano le ore 12.
Secondo le testimonianze di alcuni congiunti delle vittime, il maggiore esclamò «Il pastore era duro a morire». Vennero finiti tutti con una rivoltellata alla nuca[3].
Tutte le vittime di Villadeati
Questo l’elenco delle vittime di Villadeati: Don Ernesto Camurati, anni 46; Caprioglio Angelo, anni 50 e tre figli; Dorato Carlo, anni 44, con un figlio; Dorato Giuseppe, anni 50, due figli; Gippa Clemente, anni 60, due figli; Lanfranco Felice, anni 44, due figli; Odisio Carlo, anni 45; Odisio Luigi, anni 49, quattro figli; Odisio Giuseppe, anni 52; Quarello Luigi Pietro, anni 57 (ucciso il 24 ottobre successivo); Vallone Ernesto, anni 49, quattro figli; Quarello Pietro venne ucciso poi, il 24 ottobre, da repubblichini di Asti, in un successivo rastrellamento. Caprioglio Angelo, d’origine milanese, venne catturato mentre era in cantina impegnato nelle operazioni di vinificazione. Ancor oggi, la signora Carla Rosso, nipote della vittima Dorato Carlo, ricorda con emozione la narrazione che sempre le fece di questa tragedia la mamma Noris Dorato.
A Murisengo e Cerrina
Dopo l’eccidio, i soldati tedeschi seguiti dai militi repubblichini, risalgono sui camion carichi di bottino e si dirigono verso Murisengo e Cerrina per completare il rastrellamento. «Le donne di Villadeati – ricorda con singhiozzo sincopato la signora Ondina Lachello Maioglio – accorsero al rondò e con l’aiuto dei pochi uomini rimasti riportarono le salme a casa, avvolte in lenzuola, posate su alcuni carri solitamente usati nella vendemmia. La salma di don Camurati fu condotta in canonica; ricordo il dramma della sorella Valentina e di suor Severina. Adagiammo il corpo di don Camurati sull’anta di una porta, ricoperta da un lenzuolo, che posammo sul letto. Vi era sangue dappertutto. Rantolava ancora. La signora Baldassarri mi narrò come, dopo l’eccidio, i tedeschi la caricarono sul camion e la lasciarono fuori paese. Le dissero di camminare in mezzo alla strada per un tratto e spararono a destra ed a sinistra per terrorizzarla».
Don Ernesto Camurati
Don Ernesto Camurati era nato a San Salvatore il 17 giugno 1898. Il padre Francesco, reduce dalle campagne in Eritrea di fine secolo, era calzolaio; la madre sarta. Ernesto era primo di sette figli. Dopo le scuole elementari a San Salvatore, frequentò il seminario diocesano a Casale. Benchè chierico, venne chiamato alle armi e fece l’alpino per quasi tre anni. Nel ’25, venne ordinato sacerdote. Per sette anni esercitò a Casale Popolo, poi divenne, dal 1933, parroco a Villadeati.
L’eccidio di Villadeati e l’uccisione di Don Camurati non furono eventi casuali, ma pianificati da Meyer e dai fascisti locali, con volontà intimidatrice e di rappresaglia. La zona collinare di Villadeati venne scelta già a marzo 1944 dai partigiani della Monferrato come punto strategico d’insediamento e di osservazione. In località Tribecco, si formò una base operativa. Ai tedeschi ed ai fascisti casalesi erano noti l’attenzione e la fattiva collaborazione di don Camurati verso i partigiani, il suo dissenso pieno verso l’occupazione tedesca ed il ritorno della violenza da parte della R.S.I.[4].
Don Ernesto fu promotore, a fine 1943, della costituzione del primo CLN della zona. Nella casa parrocchiale, riunì un nucleo di antifascisti, fra i quali Luigi Quarello di Alfiano Natta, Teodato Lachello e Augusto Giunipero di Villadeati. Per tutto il 1944, fino all’eccidio, fu abile cerniera fra i partigiani e le famiglie contadine. La rete informativa tedesca e fascista carpì, da un tedesco catturato dai partigiani e poi delatore, utili notizie sulle basi e movimenti dei ribelli.
Nell’estate, infatti, a seguito di un’operazione d’assalto ad un camion tedesco, i partigiani della Monferrato catturarono un tedesco di nome Ernest. Il prigioniero rimase due mesi a Villadeati; era un esperto meccanico; riparò parecchi mezzi; non alimentò alcun sospetto. Il 6 ottobre fuggì dal comando della Monferrato, si recò dalle SS di Casale e fornì ampie notizie sull’accampamento di Tribecco. I partigiani, accortisi della fuga, si spostarono velocemente. Ma non fu sufficiente [5].
La vicenda tragica di Villadeati venne ricostruita, con profonda partecipazione emotiva, dal vescovo di Casale Monsignor Giuseppe Angrisani, nel volume La Croce sul Monferrato durante la bufera, edito nel 1946. Angrisani narra il drammatico colloquio avuto con il maggiore Meyer, al comando tedesco di Casale; la visita a Villadeati, dopo l’eccidio; l’incontro con le famiglie, con le salme degli uccisi ancora in casa. Nelle parole di Angrisani si coglie l’accorato ed esplicito onore alla figura di don Camurati, vittima e simbolo per l’antifascismo cattolico[6].
La violenza dei tedeschi non terminò con l’eccidio a Villadeati, ma nel pomeriggio dello stesso giorno, scendendo da Villadeati verso lo stradone in direzione di Casale, il maggiore Meyer, utilizzando un binocolo, vide sulle colline di fronte scendere due giovani, fra i campi. Ne ordinò la cattura.
Oreste Caramellino e Ginetto Bianco
Erano Oreste Caramellino e Ginetto Bianco; nel mattino, dalle colline di Frostolo (frazione di Odalengo Grande) vedendo il fumo e l’incendio delle cascine di Tribecco e di Villadeati, scapparono e si rifugiarono nel torrente Stura. I tedeschi li catturarono nella frazione di Pozzo. Il farmacista dott. Ordazzo tentò di salvare i due giovani, implorò il maggiore Meyer, ma fu inutile. Fu fatto silente con un revolver puntato alle tempie. Qui Bianco, detto Ginetto, venne ucciso con un colpo di pistola, mentre Oreste Caramellino fu picchiato e ferito con un pugnale in più parti del corpo, fino alla morte, fra sofferenze atroci. La cugina Caramellino Rosina lo vide passare, braccato dai tedeschi, bastonato. Oreste la rassicurò, torno fra poco. Ma invece andò incontro alla morte.
I tedeschi e fascisti avevano pure l’obiettivo di giungere ad Odalengo Piccolo per assediare e devastare alcune cascine, vi riunciarono e il paese non venne devastato. Ugo Bertana, nella Vita Casalese del 20 ottobre 1994, così ricorda quegli eventi: «Oreste Caramellino era tornato da pochi giorni dal fronte jugoslavo, quando vide il fumo decise di non andare nella vigna con gli altri ma di cercare un nascondiglio. Da Frostolo scese verso Pozzo, sulla strada incontrò un amico, Luigi Bianco, per tutti Ginetto, anche lui alla ricerca di un nascondiglio. Decisero che un buon posto era il torrente Stura, si avviarono; ma la colonna del maggiore Meyer che stava scendendo da Villadeati con i cannocchiali li vide e non appena arrivarono sulla statale, i tedeschi scatenarono le ricerche.
Bloccarono i due giovani nello Stura, volarono pugni, calci e insulti. Gli abitanti di Pozzo testimoni attoniti. Il farmacista cercò di spiegare ai tedeschi che i due non erano partigiani, ottenne una pistola puntata in fronte e l’invito a rientrare in casa. I soldati scelsero un prato vicino al torrente per consumare l’esecuzione. Il Ginetto fu seccato da un colpo di pistola, ad Oreste Caramellino toccò invece un martirio crudele, finito a bastonate e fendenti di pugnale. Le urla della gente di Pozzo si levarono disperate; furono sentite da Frostolo, la mamma Gennaro Carmelina e il padre di Caramellino, con un presagio terribile, corsero verso lo Stura per assistere allo spettacolo del corpo martoriato del figlio e del suo amico. I due corpi furono portati via su un carro agricolo; le anime della gente che era stata spettatrice rimasero segnate dalla tragedia per tanti anni.”[7]
I tedeschi, verso le ore 14 di quel pomeriggio, giunsero anche a Murisengo; molti erano ubriachi. Una squadra dotata di autoblindo, al comando di Ernest, saccheggiò parecchie abitazioni, entrò in casa degli Anselmo. Svaligiò un negozio di salumeria, sottrassero tutto con violenza e caricarono su camion ed auto. Lungo la strada, i tedeschi catturarono due partigiani, mentre tentavano di nascondersi. Uno di essi, Anselmo Fedele, venne portato a Cerrina e qui ucciso.
Nel 1982, con un articolo pubblicato su ‘Patria Indipendente‘, organo nazionale dell’ANPI, lo storico Luigi Ivaldi sostenne che i tedeschi vollero esplicitamente uccidere don Camurati, perché il tedesco Ernest rivelò loro il chiaro sostegno che don Camurati diede ai partigiani locali. Non fu semplice rappresaglia, ma un’eliminazione ben circostanziata[8]. Il maggiore Meyer, dopo la resa di Casale nei giorni della Liberazione, venne catturato dai partigiani della Divisione Monferrato e della Banda del Tek Tek, fu trasferito nelle prigioni di Verrua e poi Moncalvo.
La cattura di Meyer
I partigiani della Monferrato, dopo aver liberato Torino, vollero onorare le vittime civili di Villadeati. Percorsero il tratto di strada da Odalengo Piccolo a Villadeati, resero omaggio al rondò dove ci fu la fucilazione; posero un mazzo di fiori. Dopo qualche giorno, una formazione garibaldina al comando di Tromlin (Bartolomeo Paschero, appartenente alla XIX Brigata Garibaldi) portò Meyer dalla prigione a Villadeati, per giustiziarlo.
Arrivato a Villadeati, dopo un fugace passaggio davanti alla chiesa, ove si celebravano i vespri, Meyer venne condotto sul posto della fucilazione; poi accompagnato a poche centinaia di metri, in un viottolo. Gli fu concessa un’ultima sigaretta, poi venne freddato a bruciapelo, con una fucilata al capo. Era presente anche il comandante, partigiano Alberto Dellavalle (Giusto).
«Ero poco distante dal luogo; nascosta, dietro una siepe, vidi il gruppo dei partigiani, vidi un fucile sparare. Meyer, si disse, venne ucciso da un partigiano. Volle vendicare gli abitanti di Villadeati, colpevoli solo di aver aiutato la Resistenza, ed anche la morte del fratello ucciso dai tedeschi nel Chivassese – così ci dice Ondina Lachello Maioglio – Meyer venne sepolto fuori dal cimitero, in un prato a ridosso del lato destro».
In quell’ottobre ’44, al vecchio mulino lungo il torrente di fondovalle fra S. Candido di Murisengo e Villadeati, vi era anche Gianfranco Petri, allora bambino, sfollato da Casale presso l’abitazione della nonna materna Bocchino Ponzano Alessandra[9]. «Ho un preciso ricordo, anche se giovanissimo, perché alcuni tedeschi e fascisti vennero al mulino, catturarono la nonna e me, ci misero al muro e ci vollero fucilare. La nonna implorò per farli desistere. Restammo vivi – racconta Gianfranco Petri – Seppi poi dalla nonna che la rappresaglia tedesca avvenne o il 9 ottobre o il 24 ottobre successivo. Ricordo bene che più volte aiutai la nonna a comporre delle fascine sopra una fossa. Seppi che in questo modo nascondevamo alcuni partigiani in una fossa creata a ridosso dell’argine del torrente in secca»
Dal vecchio mulino si potevano controllare molto bene ed in anticipo i movimenti delle truppe tedesche che transitavano sulla provinciale della Valle Cerrina. Ne ‘La Vita Casalese’ del 31 maggio 1945, viene narrata l’esecuzione del maggiore Meyer.
Questo il testo del breve articolo:
‘Il responsabile dell’eccidio di Villadeati, maggiore Meyer, ex comandante della piazzaforte di Casale, veniva condotto il 10 maggio 1945 sul luogo del delitto da un gruppo di patrioti. Riconosciuto immediatamente da testimoni oculari e dalla popolazione, dopo un breve giudizio risultava reo confesso. Condotto sulla piazza ove il 9 ottobre caddero le dieci vittime innocenti, il Meyer invocava la clemenza dei patrioti dicendosi padre di tre figli. Gli si rispose che a Villadeati erano diciotto i figli senza padre per colpa sua.
Per non profanare quel luogo sacro, venne fucilato, con un colpo alla nuca, lungo una strada di campagna poco oltre la piazza. Il suo corpo venne sepolto di fianco al cimitero. Il maggiore Meyer comandò personalmente la colonna di diciotto automezzi che il 9 ottobre attaccò Villadeati, compì la dura rappresagflia e l’eccidio, uccise tre giovani nella Valcerrina.
Condotto alla fucilazione, rifiutò di essere avvicinato dal Parroco e cadde fumando una sigaretta. Il cadavere, per volere del capo dei patrioti, fu rispettato dalla popolazione che a stento era stata trattenuta lontana. Le parole del capo dei patrioti: ‘Noi non siamo della loro razza’, diedero all’esecuzione la giusta misura del nostro spirito italiano e cristiano’.[10]
Secondo la ricostruzione di Alfredo Garbarini, i partigiani della Monferrato, al comando di Alberto Dellavalle, tornando dalla Liberazione di Torino, posarono una corona di fiori a Villadeati per ricordare l’eccidio. Qualche giorno dopo, però, il comandante Tromlin della Garibaldi trasferì Meyer dal carcere di Asti a Villadeati e qui venne processato e fucilato lungo il viottolo[11]. La sorte del maggiore Meyer fu sempre, tuttavia, avvolta in contesti non chiari: ci fu un processo, la popolazione vi partecipò, come venne ucciso, dove esattamente venne sepolto? Per anni, si alternarono versioni diverse, con coinvolgimenti di differenti formazioni partigiane.
Con una lettera al Direttore del ‘Monferrato’, il partigiano Bruno Rossi precisò gli ultimi attimi di Meyer in questo modo: ‘Il 30 aprile ’45, Bartolomeo Paschero detto ‘Trumlin’ vice-comandante Brigata Garibaldi rintraccia Meyer in un campo di prigionia vicino ad Asti. Meyer si era arreso ai componenti del Comando della VII Zona piemontese. Entra in chiesa e dice ‘Fuori c’è Meyer. È vostro, facciamo presto’. Venne ucciso'[12].
Dopo mesi di nuove ricerche e consultazioni presso archivi, dopo interviste e testimonianze, si può riscontrare: – il maggiore Meyer venne ucciso il giorno 10 maggio, in un viottolo di Villadeati, con un colpo di fucile al capo, sparato a bruciapelo forse da un partigiano di Villadeati; erano presenti altri componenti partigiani; – il corpo venne sepolto in adiacenza al lato destro del cimitero, ad un metro sottoterra; – il suo corpo venne riesumato il 17 ottobre 1949, per ordine e con l’assistenza della Procura della Repubblica di Casale, alla presenza dei testimoni Bianco Pietro e Bianco Clemente, del magistrato dott. Giuseppe Selicorni della Procura di Casale Monferrato, funzionari del Comune e dell’ufficiale sanitario dottor Maccario Camillo, dei carabinieri di Murisengo; il corpo di Meyer presentò una ferita devastante al capo, non furono ritrovati indumenti. Il corpo di Meyer venne riesumato solo ad ottobre 1949, perché, per ben quattro anni, la popolazione si oppose sempre alla riesumazione; non si trovarono testimoni disponibili; – sempre ad ottobre 1949, vennero riesumate le salme dei militari repubblichini Temporin Tullio di Venezia e Longo Ferdinando di Roma, uccisi dai partigiani nell’autunno ’44; di un maresciallo tedesco, sconosciuto, ucciso dai partigiani a Cavagnolo, nell’autunno ’44.
Nei registri dell’archivio del Comune di Villadeati è trascritto il verbale dell’avvenuta riesumazione, riconoscimento e descrizione del cadavere di Meyer. Nel registro si legge: ‘Secondo l’indicazione dei due testi sopra accennati, in una fossa scavata nell’immediata adiacenza del muro laterale di destra del cimitero di Villadeati, trovasi sepolto il cadavere del maggiore dell’esercito Meyer, il quale nei giorni immediatamente successivi il 25 aprile 1945 venne catturato e tradotto dalle formazioni partigiane in comune di Villadeati ove venne giustiziato.
La salma venne sepolta all’esterno del cimitero in quanto in quell’epoca la popolazione si oppose a che il tedesco venisse sepolto in terra benedetta. S’inizia coll’assistenza del medico perito la rimozione del terreno del luogo indicato dai testi e dalla profondità di un metro circa viene alla luce uno scheletro disarticolato ed indenne. Si nota la totale scomparsa delle parti molli del cadavere dovuta all’azione di assorbimento del terreno sabbioso. All’esame del cranio si nota la frattura multipla della teca cranica la quale risulta frantumata in molteplici parti. Null’altro si rivela a carico delle altre parti dello scheletro sul qual non sono stati reperiti indumenti di sorta.
Interrogato sulla causa della morte ed i mezzi che l’hanno prodotta il perito risponde: la causa della morte è attribuibile all’imponente frattura della teca cranica, frattura provocata da corpo contundente o da scarica di proiettili di arma da fuoco. Si dà atto che la salma viene ricomposta in una bara di legno nella quale viene preso nota che la salma apparteneva in vita al maggiore dell’esercito tedesco Meyer. L’ufficio ordina che la salma venga inumata nel cimitero di Villadeati’.
Dopo la riesumazione del ’49, la salma di Meyer venne riposta nell’ossario comune del cimitero. Nessun familiare la richiese per il rimpatrio. A seguito di una non semplice ricerca, si è appurato che oggi la salma di Meyer riposa nel cimitero militare germanico di Costermano (Verona), nel settore 10 tomba n. 147, con provenienza Villadeati. Grazie alla collaborazione del direttore del cimitero di Costermano, dottor Mauro Agostinetto, si è finalmente riscontrato l’autentico nome del maggiore: Wilhelm. Per quanto concerne il cognome, fino ad oggi tutti i saggi e volumi già editati recitano Mayer, mentre alcune fonti autorevoli raccolte in occasione di questo lavoro rivelano Meyer. Per l’opzione Meyer, depongono alcuni fonogrammi tedeschi, i lasciapassare tedeschi, il diario dei Salesiani di Casale Monferrato, alcuni documenti siglati con firma autentica di Meyer, la relazione del dott. Garbarini.
Alla figura di Meyer si lega, altresì, l’uccisione del partigiano Lazzaro ‘Neno’ Lazzarini, avvenuta il 6 ottobre 1944, nel quartiere del Ronzone, a Casale. Lazzarini era originario del Bergamasco (nato il 18 dicembre 1916) ed abitò con la famiglia a Moncalvo. Era tenente degli Alpini nel 3° Reggimento, Battaglione Fenestrelle; fu studente universitario nella facoltà di matematica e fisica. Dopo l’8 settembre, aderì come alpino alle formazioni partigiane in Val Chisone e successivamente, su invito di don Bolla di Moncalvo e di Luigi Quarello di Cardona, contribuì alla costituzione della VII Divisione Autonoma Monferrato. A primavera ’44 venne nominato vicecomandante della Monferrato con il nome di ‘Nino’.
Il giorno 6 ottobre, dopo aver accompagnato un partigiano ferito all’ospedale di Casale, transitando in centro città venne riconosciuto da un tedesco che in precedenza si era inserito fra i partigiani di Villadeati. Venne catturato dai tedeschi e fucilato per ordine di Meyer in riva al Po e poi gettato nel fiume. Il suo corpo non venne mai ritrovato. In suo onore venne intitolata una brigata della Divisione Monferrato.
L’eccidio di Villadeati è l’evento resistenziale più crudele, sconcertante avvenuto nel Monferrato. I tedeschi uccisero solo civili ed il loro parroco. Fu una ferita radicale all’uomo, ad una piccola comunità. Don Camurati venne scelto, catturato e ucciso da Meyer volutamente, perchè ritenuto dai comandi tedeschi e dalle SS responsabile di aver sostenuto e alimentato il dissenso rispetto all’occupazione tedesca e alla rinata RSI, di aver promosso e organizzato incontri clandestini fra Moncalvo e Zanco con presenza di antifascisti, ex militari e giovani renitenti ai bandi di chiamata alle armi.
Parroci della Liberazione
Don Bolla, don Camurati, don Finazzi (coraggioso parroco di Zanco), don Garoppo, don Gonella, don Minazzi, don Bianco, don Ferrero, don Acuto, don Balossino, don Coggiola, don Verri, don Raiteri, don Boccalatte, don Bargero, don Gatti, don Panizza, don Mussano, don Brignolio, Padrea Allara e il vescovo Angrisani tessero una rete di parroci vicini alle formazioni partigiane e alla popolazione civile. A Moncalvo, nell’autunno ‘43, nella canonica di don Bolla, venne costituito un primo CLN sotto l’etichetta di copertura della San Vincenzo. A Zanco e Villadeati si tennero riunioni fra clero e partigiani. A fine settembre ‘44 il vescovo Angrisani aveva allertato tutti i parroci contro una programmata azione violenta e dimostrativa dei tedeschi proprio contro i parroci, li invitò a dotarsi di abiti borghesi e di una tessera laica.[13]
In data 1 ottobre ‘44 il maggiore Meyer catturò don Volpato presso la casa dei salesiani di corso Valentino a Casale Monferrato, per aver ospitato ex militari e partigiani; lo trattenne un mese in carcere e venne poi liberato con scambio di prigionieri tedeschi. Meyer ritornò il giorno dopo presso salesiani, affrontò il superiore della comunità, lo afferrò all’orecchio e lo percosse a terra, dicendo: ‘Voi preti sarete tutti fucilati, compreso il vostro Vescovo’. Dopo pochi giorni la rappresaglia di Villadeati e l’uccisione di don Camurati e 10 civili capifamiglia.
Il vescovo Giuseppe Angrisani ed il clero casalese vennero etichettati come ‘clero ribelle e stonato’ rispetto alla diffusa omologazione. Nelle sezioni del P.N.F., fra i miliziani, fra le truppe tedesche, il clero casalese venne spesso apostrofato e denigrato. Tangibili prove sono i commenti pubblicati sul periodico ‘Lavoro Casalese’, alcuni rapporti della polizia locale, le prese di posizione delle autorità fasciste. Il clero casalese assicurò rifornimenti, contatti, sostegno logistico ai membri del CLN; fece da cerniera fra alcuni industriali locali e la Resistenza.
Vi fu un fatto significativo, poco noto, opportunamente ripreso dalla storiografia locale più attenta. La sera del 4 marzo 1944, nella frazione di Zanco del Comune di Villadeati, nella chiesa parrocchiale, si tenne un incontro presieduto dal Vescovo Angrisani. Vi parteciparono, inoltre, un rappresentante del Vescovo di Parma, monsignor Evasio Colli (originario di Lu); un rappresentante dell’arcivescovo torinese Maurilio Fossati, un delegato del Vescovo Monsignor Umberto Rossi di Asti; una decina di parroci monferrini, fra i quali don Ernesto Camurati, alcuni esponenti della DC. L’incontro venne promosso anche da Giovanna Mazzone, fondatrice di numerose opere sociali a Casale Monferrato ed animatrice dell’antifascismo cattolico.
Nella riunione, si decise di sostenere ed agevolare il dissenso dei giovani verso la leva, invitandoli a porsi in contatto con l’Azione Cattolica che già aveva allestito basi in montagna per l’accoglienza. Nell’incontro venne, altresì, concordato di consolidare la rete di collaborazione fra le varie parrocchie, a difesa delle popolazioni rurali e dei giovani.
Si riporta per esteso la nota del 26 aprile 1944, redatta dalla G.N.R. di Alessandria ed ora custodita nell‘Archivio Luigi Micheletti di Brescia: ‘Da Alessandria vengono riferite le seguenti notizie avute da fonte confidenziale non potuta controllare.
L’organizzazione del partito democratico-cristiano, per la parte regionale piemontese, conterebbe sull’aderenza di circa 5000 iscritti, in massima parte agricoltori; i contatti con gli esponenti direttivi avverrebbero per il tramite di capi nucleo e cellule sparsi in quasi tutti i comuni del Piemonte. Il Partito sarebbe rappresentato, in seno al Comitato italiano di liberazione nazionale, da due esponenti del partito stesso.
Secondo l’informatore, che afferma di aver conferito con uno degli organizzatori, il giorno 4 marzo U.S. il vescovo di Casale avrebbe tenuto una riunione nella casa parrocchiale di Zanco di Villadeati, con la partecipazione del delegato del vescovo di Parma, quale inviato per l’Azione Cattolica, del delegato dell’Arcivescovo di Torino, del delegato dell’Arcivescovo di Asti, di una decina di sacerdoti e 4 o 5 capi nucleo.
Tema della riunione: arresti di esponenti del partito democratico cristiano e misure da adottare in difesa dei giovani delle classi 1922-1923-1924-1925 allo scopo di sottrarli al richiamo alle armi. Il vescovo di Casale avrebbe preso la parola riassumendo la situazione attuale nei confronti degli arresti avvenuti e precisando che, in caso di nuovi arresti o fermi di elementi appartenenti al partito democratico cristiano, se ne sarebbe dovuto dare immediata comunicazione all’Arcivescovo di Torino, oppure al vescovo di Asti o a lui stesso, in quanto era dimostrato che l’intervento delle autorità ecclesiastiche in favore di arrestati si era risolto nel modo migliore.
Nella circostanza il vescovo di Casale avrebbe precisato il caso dell’avvocato Guglielminetti, arrestato il giorno 20 febbraio u.s. a Torino e rilasciato il giorno dopo per l’intervento dell’Arcivescovo di Torino e del conte di Modrone, citando altresì il caso di altro sacerdote, certo don Bolla, che si sarebbe risolto nel nulla per le pressioni da lui personalmente rivolte al Capo della Provincia di Asti.
Relativamente alla questione dei richiamati alle armi, il vescovo di Casale avrebbe invitato i presenti a svolgere attivo infaticabile lavoro di persuasione presso i giovani affinchè evitassero di presentarsi alle armi ponendosi sotto la protezione dell’organizzazione militare dell’Azione Cattolica, la quale, per aver attrezzato diversi campi in alta montagna, era in grado di offrire ottime garanzie di sicurezza e di conforto ai giovani che intendevano di sottrarsi agli obblighi di leva.
Avrebbe poi preso la parola il delegato dell’arcivescovo di Torino, confermando che i campi stessi presentavano, sia dal lato sicurezza che dell’attrezzatura, sufficiente garanzia e precisando che essi erano parecchi e sparsi un po’ ovunque e gli alloggi costituiti da baite rimesse in condizioni di abitabilità. Avrebbe poi suggerito l’opportunità che i giovani avviati al centro di raccolta si fossero presentati equipaggiati da montagna, muniti di una coperta e di appositi recipienti per il vitto, il quale era abbondante; anche il pane non scarseggiava e quindi nessuna preoccupazione si sarebbe dovuta avere sullo stato sanitario dei giovani.
Infine avrebbe riferito che l’armamento era già abbastanza numeroso e che comunque era attesa una grossa fornitura di armi dalla Svizzera. Sarebbe poi seguita una lunga esposizione del delegato del vescovo di Parma, circa l’attività dell’Azione Cattolica a cui era dovuto il merito di aver saputo e voluto creare una organizzazione militare che permetteva di affrontare gli attuali momenti, con misure altamente realistiche che permettevano di sottrarre tanti giovani dal richiamo alle armi e nello stesso tempo di dare loro la possibilità di ricevere una istruzione che potrà giovare grandemente per il raggiungimento della meta fissata.
Altro convenuto avrebbe fornito nuovi ragguagli sui campi, proponendo che l’accesso ad essi fosse riservato ai soli giovani delle classi 1922-1923-1924-1925, fatta eccezione per qualche perseguitato e ricercato politico. La riunione, iniziatasi alle ore 21 circa, sarebbe terminata alle ore 23.30. Da notizie raccolte sul posto è stato possibile conoscere la sede del Centro di raccolta sopra menzionato che è situato presso l’Arcivescovado di Torino, in via Arcivescovado, n. 12. Sono in corso ulteriori accertamenti.”
A Torino, infatti, venne costituito, presso la Curia di via Arcivescovado n. 12, un centro di raccolta dei giovani renitenti, gestito dall’Azione Cattolica. Il gruppo di sacerdoti riunitisi a Zanco si ritrovarono il 4 aprile, a Torino, presso la casa salesiana di Valdocco. In tale appuntamento, venne imbastita la Lettera dell’Arcivescovo e Vescovi della regione piemontese al clero e al popolo nella Pasqua 1944. La lettera venne letta da molti vescovi piemontesi in occasione dell’omelia di Pasqua ’44.
La rappresaglia e l’eccidio di Villadeati vanno così contestualizzati, collocati in un disegno preciso di offensiva dei nazifascisti per rompere il rapporto saldo e rinvigorito fra mondo cattolico, clero e popolazione civile. Vennero colpiti don Camurati e la sua gente, per colpire la rete creata a sostegno della Resistenza. La Vita Casalese del 3 maggio 1945 pubblicò il resoconto della Liberazione di Casale e il ruolo dei cattolici e del Vescovo, ospitò un articolo a tutta prima pagina titolato ‘L’Italia è tornata libera. La Liberazione della Valle Padana, i nazi-fascisti ovunque disarmati o in fuga, Casale è libera, Nobile discorso di S.E. Mons. Vescovo in Cattedrale.
L’eccidio drammatico di Villadeati, con l’uccisione del parroco Don Camurati e dei 10 capifamiglia, l’uccisione dei due giovani Bianco e Caramellino a Pozzo nel pomeriggio e del partigiano Anselmo a Cerrina sono il drammatico bilancio di una giornata di violenza compiuta da tedeschi e fascisti locali. Tedeschi e fascisti vollero punire la popolazione civile e i parroci che da tempo sostenevano la Resistenza nel Monferrato.
Una sequenza drammatica
Non fu un episodio unico e isolato, ma si colloca in una sequenza drammatica iniziata a settembre: 11 settembre assalto di tedeschi e fascisti a Rosignano alla ricerca di ebrei nascosti e partigiani, 11-12 settembre cattura e uccisione dei 27 partigiani della Banda Lenti di Camagna, 1 ottobre viene arrestato don Volpato direttore dei salesiani al Valentino di Casale Monferrato, 9 ottobre eccidio di Villadeati con uccisione di Don Camurati e 10 capifamiglia e tre giovani, 1 e 16 novembre assalto e combattimento a Cantavenna, 15 novembre tentato assedio al comune di Ozzano, 16 novembre uccisione di 6 partigiani e antifascisti a Ticineto, 15 gennaio 45 cattura e fucilazione della banda Tom. In tutti questi eventi i tedeschi operarono con indicazione e collaborazione diretta dei fascisti casalesi e di Alessandria e Asti.
Ricordare oggi questi fatti non è solo compito di fare memoria storica, richiamare il recente passato, ma anche e soprattutto imperativo di rinsaldare le convinzioni nella nostra Costituzione, di riattualizzare i principi di libertà e di solidarietà che dalla Costituzione ci giungono.
Proprio in questi giorni, in presenza dei fatti gravi di attacco fascista a Roma, dobbiamo dire grazie alle vittime del ‘44 e ‘45 per averci dato le fondamenta della libertà e democrazia di oggi; sono stati i partigiani di ieri, i parroci e la popolazione del nostro Monferrato a regalarci le nostre istituzioni, la nostra democrazia rappresentativa, l’attuale nostro sentirci comunità e territorio coeso.
Nei giorni scorsi ho esaminato gli Statuti dei 10 partiti italiani più grandi, per cogliere come e quanto fossero ancorati alla nostra Costituzione. Solo un partito, oggi accusato di vicinanza a movimenti neofascisti, nei suoi ben 39 articoli non utilizza mai le parole Costituzione o principi costituzionali, ovviamente ignorando il termine Resistenza. È sconcertante, drammaticamente rivelatore. Oggi, qui, nello spazio dove vennero uccisi don Camurati e i 10 capofamiglia, con vigore e efficacia applaudiamo noi alla Resistenza e alla Costituzione.
Le note
[1] Testimonianza della sorella di Don Camurati, Valentina Camurati, rilasciata all’autore nel 1977.
[2] Testimonianza rilasciata all’autore a gennaio 2009 dalla signora Ondina Lachello Maioglio.
[3] Cfr. I martiri di Villadeati, edita a Casale Monferrato dalla tipografia Arti Grafiche. Dettagliata e completa è la relazione del dott. Alfredo Garbarini, redatta e consegnata all’archivio comunale di Villadeati nel 1975. Alcune annotazioni fornite da Idro Grignolio all’autore, a dicembre 2008. La testimonianza di Luigi Gippa è stata resa all’autore a gennaio 2009. Si segnalano come fonti ricostruttive: Don Aldo Luparia, Pro Patria mortuis in Cristo viventibus, pubblicato nel 1946; R. Borello, S. Cotta, L. Vaj, Noi della Monferrato. La VII Divisione Monferrato nella Resistenza piemontese, II edizione 2007, Torino, Autonomi Editore; Mons. Giuseppe Angrisani, La Croce sul Monferrato durante la bufera”, edizione 1946 e rieditato nel 1949, 2004 e 2015 dalla Fondazione Sant’Evasio; Sergio Favretto,Casale Partigiana, Libertas Club, Casale Monferrato, 1977; Sergio Favretto, Resistenza e nuova coscienza civile, Falsopiano, Alessandria, 2009; al diario e testimonianza diretta di Giuseppe Angrisani, La croce sul Monferrato durante la bufera, prima edizione nel 1946 e rieditato da Fondazione Sant’Evasio e Vita Casalese nel 2015; Claudio Borio, “Uccidete me, salvate i miei parrocchiani” in Astigiani marzo 2020; Alessandro Allemano, temidistoria wordpress, 2014; Ermanno Ronco, Il capitano Orlandi, la vera storia del distaccamento Fox, Milano, Montedit, 2011; Giampaolo Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, Bari, Laterza, 1967 e 1998; Giampaolo Pansa, Uccidete solo me, liberate questi padri di famiglia” nella Stampa del 1 novembre 1961; Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della Resistenza, Milano, Mondadori, 2013, pagg. 159, 224, 308; Aldo Cazzullo, Possa il mio sangue servire, Milano, Rizzoli, 2015, pgg. 121,122.
[4] Giacinto Franzosi-Luigi Ivaldi, Sulle strade del nemico assediate, 1983, Il Quadrante Editore, p. 65.
[5] Si veda “Noi della Monferrato, la VII Divisione Autonoma Monferrato nella resistenza piemontese”, a cura di R. Borello, S. Cotta, R. Vaj; F. Meni, Quando i tetti erano bianchi, op. cit., p. 160.
[6] Puntuale e preziosa la testimonianza di Giovanna Baldassari Tedeschi, testimone oculare dell’eccidio, intervistata dal giornalista Mauro Facciolo (pubblicata ne La Stampa del 9 ottobre 1988, nelle pagine Alessandria e provincia). Si veda il testo dell’intervento ufficiale del Presidente della Provincia di Alessandria, prof. Giovanni Sisto, svolto nel 1961 in occasione della cerimonia di rievocazione a Villadeati, intervento pubblicato sul n. 2 della rivista “La Provincia di Alessandria”. Per la ricostruzione dei fatti violenti che i tedeschi compirono nel pomeriggio, a Murisengo e Pozzo, sono preziosi i documenti e gli appunti scritti consegnati all’autore da Gennaro Carmelina, cognata di Oreste Caramellino, e da Piero Caramellino, nipote di Oreste.
[7] Ugo Bertana, in La Vita Casalese del 6 del 13 e del 20 ottobre 1994. Si veda il manoscritto consegnato all’autore da Gennaro Carmelina ved. Caramellino, nel manoscritto viene ricostruita nel dettaglio la giornata del 9 ottobre 1944, con la rappresaglia a Villadeati e la caccia e uccisione di Oreste Caramellino e Ginetto Bianco.
[8] Luigi Ivaldi, articolo apparso in “Patria Indipendente”, organo ufficiale dell’ANPI, pubblicato il 14 febbraio 1982. E. Soraci, La percezione dello spazio nelle testimonianze di una comunità contadina: il caso di Villadeati in Val Cerrina, Torino, Bollettino Storico bibliografico subalpino, Vol. XCI, n. 1, Torino, 1983.
[9] Testimonianza resa dall’ing. Gianfranco Petri (1938) all’autore a gennaio 2009.
[10] Nella La Vita Casalese del 31 maggio 1945.
[11] Relazione di Alfredo Garbarini in Archivio Comunale di Villadeati.
[12] Lettera di Bruno Rossi, pubblicata su “Il Monferrato” del 10 ottobre 2000.
[13] Si veda la memoria di Albino Tizzani e il diario di don Giuseppe Ferrero, in possesso dell’autore.