Il tempo e la memoria: “Belfast” di Kenneth Branagh
Per quelli che sono rimasti, per quelli che sono partiti, per quelli che si sono persi
(dal film “Belfast” di K. Branagh)
È un viaggio nostalgico, potente, divertito e commosso nella terra perduta dell’infanzia, seppure funestata dalla guerra civile, quello in cui il regista e attore inglese Kenneth Branagh (in gioventù allievo di Laurence Olivier e appassionato di teatro shakespeariano, tanto da contare nel suo carnet artistico l’adattamento di ben cinque tra drammi e commedie del Bardo) accompagna lo spettatore, risalendo ai suoi nove anni e all’estate del 1969, quando a Belfast – dove viveva – tutto cambiò.
Pluricandidato all’Oscar (primo film nella storia dell’Academy a venire nominato in sette differenti categorie), Belfast non ha potuto – per lo più a causa della pandemia – essere girato nei luoghi originari che Branagh conobbe da bambino, trasformati nel corso del tempo: così, la strada del quartiere popolare che fa da sfondo al racconto è stata ricostruita su una pista dell’aeroporto inglese di Farnborough.
Ciononostante, il realismo e la forza della rappresentazione non sono andati perduti e il film si apre con una panoramica a colori della Belfast attuale, che poi trapassa nel bianco e nero nitido ed elegiaco della lontananza, nel ricordo della città com’era in quell’agosto 1969 che vide allargarsi a macchia d’olio ‘The Troubles’, il conflitto tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord; la cosiddetta ‘guerra a bassa intensità’ che ha provocato – tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Novanta – più di 3500 vittime.
Nel tranquillo quartiere in cui Buddy – alter ego infantile di Branagh (l’undicenne Jude Hill, al suo debutto sul grande schermo) – trascorre le sue normali giornate di ragazzino scandite dalla frequenza della scuola, della chiesa e (non a caso) del cinema, dai giochi per strada armato di uno spadino di legno e uno scudo di latta, dai discorsi più o meno fondati con l’avvenente madre (Caitríona Balfe), con il padre che lavora in Inghilterra (Jamie Dornan) e, soprattutto, con i nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds), l’inatteso deflagrare della guerra manda a gambe all’aria un mondo.
Le vecchie amicizie, il buon vicinato, la serenità delle famiglie sembrano irrimediabilmente distrutte, così come la pacifica convivenza nello stesso quartiere tra i Nazionalisti cattolici e gli Unionisti protestanti: Branagh rende con estrema efficacia il drammatico cambiamento in una manciata di secondi, tramite un bellissimo carrello circolare dove la macchina da presa ruota più volte intorno al corpo di Buddy, immobile in mezzo a una stradina al cui fondo il bambino intravede lo scoppio dei tafferugli.
La particolarità del film consiste nel fatto che non solo questa scena, ma l’intera storia è narrata dalla prospettiva di Buddy e del suo sguardo bambino, che nonostante le tensioni intestine, le paure provocate dagli scontri, non rinuncia a essere tale e si destreggia tra la prima cotta per Catherine (Olive Tennant), una sua compagna di classe cattolica, i piccoli successi scolastici e i furtarelli al locale spaccio di alimentari.
Tutto, nel bene e nel male, viene investito – nella dimensione mentale e fantastica di Buddy – da un’aura mitica, leggendaria: persino gli adulti e gli stessi ‘Troubles’.
La pellicola si ammanta di citazioni cinematografiche, musicali e della cultura pop visiva dell’epoca: dalla serie televisiva “Star Trek” – andata in onda negli Usa dal 1966 al 1969 – a “Un milione di anni fa” di Don Chaffey, film ambientato nella preistoria e prodotto dalla Hammer nel 1962; dalle canzoni del cantautore irlandese Van Morrison al fumetto “Thor” di Stan Lee, Larry Lieber e Jack Kirby, pubblicato nell’agosto 1962 e trasposto sul grande schermo da Branagh nel 2011.
Il film nella sua struttura evoca anche il ricordo di “Voci lontane…sempre presenti” di Terence Davies (1988), un altro racconto autobiografico filtrato attraverso gli occhi di un bambino in una famiglia cattolica di Liverpool nel decennio compreso tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, e scandito da una molteplicità di motivi musicali.
Sovente, a ogni uscita di un nuovo film del cineasta di Belfast, si torna a dibattere sul suo presunto egocentrismo, espresso in una ricerca ossessiva e maniacale della perfezione estetica: finendo per paragonarlo, pur nell’evidente intento denigratorio, al genio di un Orson Welles.
Eppure, in “Belfast” la pignoleria narrativa di Branagh si stempera nella malinconia agrodolce e nel rimpianto verso un tempo d’infanzia che è stato, a suo modo e nelle sue mille incertezze, fondativo di una fase della crescita come di un talento artistico ancora embrionale, ma sicuro.
«È stato il lockdown, quel regime di incertezza che così tanti di noi abbiamo provato durante quel periodo mi ha riportato alla memoria quello che ho vissuto a 9 anni: quando la mia strada a Belfast, che per me era un terreno di gioco, si è trasformato in un campo di battaglia ed in una fortezza», ha raccontato Kenneth Branagh a Barbara Tarricone in un’intervista a Sky Tg24 dello scorso 24 febbraio, il giorno dell’uscita di “Belfast” nelle sale italiane. «Era l’epoca dei Troubles: una guerra civile che ha insanguinato le strade dell’Irlanda del Nord. Come il lockdown quel periodo ha portato la mia famiglia ed altre famiglie come la mia a navigare a vista. […] Un film che racconta la mia formazione, come mi sono innamorato del cinema, quando ero bambino e leggevo fumetti e mai mi sarei immaginato, per dire, che quaranta anni dopo avrei diretto “Thor”, o nessuna delle altre cose che ho fatto».
Belfast (id., Gran Bretagna, 2021, 98’)
Regia: Kenneth Branagh
Sceneggiatura: Kenneth Branagh
Fotografia: Haris Zambarloukos
Montaggio: Úna Ní Dhonghaíle
Musica: Van Morrison
Cast: Jude Hill, Lewis McAskie, Caitriona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench, Ciarán Hinds, Josie Walker, Freya Yates, Nessa Eriksson, Charlie Barnard
Produzione: TKBC
Distribuzione: Universal Pictures