Da Pci a Pds, la metamorfosi di fine anni Ottanta a Valenza
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Alla fine degli anni Ottanta, il Partito Comunista è a un bivio culturale, ideologico e politico: da una parte la Terza via – una via di mezzo tra il comunismo sovietico e il capitalismo selvaggio – dall’altra il ritorno al grande mito della rivoluzione e al grande apparato ideologico con quel pensiero unico che quasi impedisce di ragionare; insomma, il vecchio armamentario che oggi, scomparsi gli scontri dottrinali, ci sembra quasi patetico di fronte alle attuali tragedie e alle nuove minacce che probabilmente ci aspettano.
Le ultime consultazioni del decennio 1980 hanno posto ai dirigenti comunisti valenzani l’urgenza di aprirsi al nuovo e, per togliere l’impressione di un partito rivolto più al passato che al futuro, spingono in questa direzione i membri del direttivo valenzano Lenti, Bosco, Ghiotto, Buzio, Bertolotti e Leoncini.
Gli iscritti totali sono circa 700, ma le due sezioni locali sono vuote, senza vita, e nelle iniziative sociali-ricreative locali che vedono protagonisti i giovani valenzani c’è troppa assenza di comunisti. L’onda politica, con i suoi ardori, si è ritirata parecchio anche tra i tanti astuti capitalisti locali di sinistra che parlavano in un modo e vivevano in maniera opposta.
Ormai da un decennio, la segreteria cittadina è occupata da permalosi funzionari non valenzani (Di Leo, Bassini, Marostegan), che non hanno trovato il giusto collante con la realtà di questa città; occorrerebbe uscire dal guscio di un apparato troppo burocratico e sospettoso per percepire i bisogni e le spinte che vengono dalla gente, non essere soltanto il partito delle tessere e non affidare la rappresentanza in fabbrica solo al sindacato.
Nel corso degli ultimi decenni, il P.C.I. ha sempre mantenuto la trasformazione socialista del paese come obiettivo della propria azione politica, una meta che nessuno ha mai messo in discussione, anche perché la politica del partito era costantemente premiata dai risultati elettorali; ma, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative del 1985 e, soprattutto, nel referendum promosso dallo stesso PCI sulla “scala mobile” avvenuto nello stesso anno, al “Cremlino valenzano” per un po’ di tempo regnerà uno sconforto condito da incredulità e travasi di bile.
Animato dalla volontà di rivalsa e dal senso di ostilità, il gruppo consigliare comunista, composto da gente scaltra e competente ma troppo vanagloriosa, attacca continuamente la coalizione che governa problematicamente la città dal 1985, formata dai fedifraghi socialisti, un tempo tanto amati, dagli imperituri nemici confessionali democristiani e dai nuovi arrivati del Polo Laico (PRI-PSDI-PLI); il loro è un voto contrario permanente, anche su provvedimenti nati prima. Dalle loro bocche esce sempre il solo deprecabile avverbio negativo, anteponendo sovente l’ideologia della contrapposizione all’interesse generale: un disprezzo a priori, quasi etnico. Nei consigli comunali, gli assessori in carica sembrano pupazzi che l’opposizione comunista strapazza, incurante d’ogni rispetto, accusandoli di manifesta incapacità e conclamata inadeguatezza.
Nel giugno del 1988, il segretario Gabriele Marostegam dichiara che non c’è nessun rapporto con questa maggioranza che si crede autosufficiente. Al comando del partito gli subentrerà Ciro Pistillo, che di battaglie giovanili se ne intende, essendo stato tra i più attivi nelle dispute elettorali scolastiche e nella FGCI. Alcuni dei nuovi dirigenti, sono fioriti nella sinistra alternativa e transitati nell’unità proletaria, altri sono cresciuti nella FGCI. Quasi tutti – Bove, Borioli, Legora S., Lenti A., Lopena, Miotto e altri – si sono ritrovati nel Circolo culturale Palomar della Sinistra giovanile, nato nel 1986 dal gruppo di giovani della cosiddetta “sinistra sommersa”, un circoletto di giacobini arrabbiati abituati a considerarsi eticamente sopra gli altri. Vogliono tagliare gli sprechi, ma qualcuno di loro, con appartenenza tiepida, taglierà presto la corda alla faccia dell’ideale mondo nuovo.
Dal 1987 al 1989, l’azione riformatrice di Achille Occhetto sembra muoversi in perfetta sintonia con quella di Mikhail S. Gorbaciov: cambiare e anche molto, ma nell’ambito della prospettiva socialcomunista, secondo l’ottica berlingueriana dell’immissione di elementi di socialismo nella società italiana. La vera crisi del partito esplode dopo la grave flessione elettorale nelle elezioni politiche del 1987, in cui localmente ottiene alla Camera il 35,85% (nel 1976 era stato il 48,83%) e, sebbene il direttivo valenzano dia la sensazione di impegnarsi facendo appello a tutte le sue risorse, personali e politiche, vengono a galla alcune ingenuità.
La più importante fase di cambiamento nazionale si compie tra la fine del 1989 e il febbraio del 1991, e consiste nel mutamento del nome e dell’identità ideologica del partito. Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, che sancisce la fine di un’epoca, il segretario generale del PCI Occhetto, nel corso di una manifestazione partigiana in un quartiere di Bologna, enuncia il progetto di trasformare radicalmente il partito in una nuova “cosa”.
Dopo le amministrative regionali e provinciali del 1990, il bilancio del PCI valenzano è ancora più deludente: dal 39,73% del 1985 è passato al 32,4% alle regionali e dai 6.330 ai 4.999 voti alle provinciali.
Il crollo del marxismo, il fallimento del socialismo reale, le prime elezioni libere nei paesi dell’est europeo sono fattori che hanno certamente influito sull’elettorato valenzano, e non si capisce da dove si possa ripartire per arginare l’emorragia di consensi e di credibilità, che sembra inarrestabile. È invece il comunista Daniele Borioli a rappresentare il collegio di Valenza nel Consiglio provinciale, lasciandosi alle spalle il vice sindaco democristiano Manenti e il sindaco socialista Baccigaluppi, candidati non eletti.
Il 3 febbraio 1991, a Rimini, a conclusione del XX Congresso del PCI, Occhetto e la maggioranza dei delegati sanciscono il cambio del nome e del simbolo del partito in PDS (Partito Democratico della Sinistra), sostituendo la falce e martello con una quercia alla cui base resta il simbolo rimpicciolito del PCI. E mentre al di qua dal muro si seppelliranno i complici di Mosca, da noi i vecchi sodali si trasformeranno in una specie di foresta semovente (quercia, ulivo), come nel Macbeth di Shakespeare, con scambi di ruoli e modifiche di rotta.
La scelta, col travaglio psicologico che l’accompagna, percuote una certa schiera di militanti o simpatizzanti valenzani, è una tragedia che porta l’afrore del proletariato, il sudore dei faticatori, della povera gente e delle lotte operaie. In realtà, gli uomini di via Melgara si possono dividere in tre gruppi: gli entusiasti, i critici con moderazione e quelli che vivono la nuova “cosa” come un rospo da ingoiare. Guardandosi alle spalle, qualcuno vedrà presto quante ingiustizie e quanti morti ci sono stati nella storia della religione rossa; così, con arguzia, più di quanto sia stato in passato, diventa di moda la “Terza via”.
Prima di chiudere bottega e riaprirla con la nuova insegna, nell’animo dei tardomaxisti valenzani convivono due sentimenti contrapposti: il desiderio di affrontare la nuova avventura e la paura di rimpiangere quella passata. In modo disinvolto, qualcuno, dichiarerà di non essere mai stato comunista, ma soltanto berlingueriano. ll vecchio comunista ha forse avuto troppi innamoramenti, alla ricerca costante di miti e simboli a cui ispirarsi: l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, la Cuba di Castro, con un congenito antiamericanismo sullo sfondo. Ma ormai il feeling tra discepoli e maestri si è rotto. La nuova generazione politica riuscirà a liberarsi del nome “comunista”, a cambiare le insegne del partito, ma non riuscirà a emanciparsi completamente dal riflesso manicheo maturato alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, secondo il quale Berlinguer era il bene e il giusto, mentre Craxi era l’orco.
Negli ultimi anni a Valenza si sono privilegiate troppe logiche di potere interne con pericolose dinamiche di contrapposizione, attacchi personali, espressioni di voto bloccato e iscrizioni finalizzate a cambiare gli equilibri interni. I nuovi comunisti valenzani vogliono anche rompere il cerchio stretto dei privilegi, delle candidature carismatiche e della presentazione ripetitiva delle solite facce. Si parla sempre della grande opera di rinnovamento in corso, ma, tra non molto, alcuni penseranno che è stato rinnovato troppo.
Servirebbe un gruppo dirigente omogeneo e modernizzatore, che decida in modo creativo, abbandonando quel solito furioso approccio ideologico alla realtà. Ormai anche i leader scarseggiano, così ci si affida alle speranze che, tra un travaglio e l’altro, appaia un volto nuovo capace di ridare fiato al partito. Dopo il congresso del febbraio del 1990, con le tre mozioni, nel sottofondo si è profilato anche uno scontro vero, gravido di tensioni e di conseguenze. Sembra quasi un accumulo di clan in lotta, con tanti adulatori in cerca di benemerenze e qualche cacicco con una visione patrimoniale della politica. Secondo il nuovo cliché, il congresso ha visto prevalere gli occhettiani (Buzio, Bertolotti, Ghiotto, Lenti, ecc.), ma ad occupare i posti che contavano sono stati i più restii al cambiamento, quelli che credevano meno alla “cosa” (Ravarino, Pistillo, Borioli, Tosetti, ecc.), anche se, a giochi fatti, si è cercato di mantenere una certa unità. Come in tutti gli altri schieramenti, nessuno vuol rischiare il proprio posticino e si predilige navigare a vista. Si continua con la moria di iscritti, qualche lampo di rosso antico e con posizioni discordi, a volte una opposta all’altra, ma, intanto, la lista del PDS per le comunali del 1991 è completamente stravolta: via la vecchia guardia con l’aria mesta e frastornata di chi ha preso una facciata contro un muro, quello di Berlino, e via anche qualche giovane leoncino già spelacchiato.
La lista dei candidati è costituita all’insegna del rinnovamento e al suo interno sono presenti soltanto 6 dei 13 consiglieri della scorsa legislatura. Lasciano alcune personalità locali perbene, competenti ed efficienti, ma di stampo antico, sicuri di sé senza il problema di apparire, quali Ravarino (protagonista di innumerevoli battaglie in consiglio comunale), Capra (assessore per lunghi anni), Piacentini (ex sindaco negli anni Sessanta), Amisano (il medico amico), e poi Campese, Ariotti, Leoncini. Tra le candidature al consiglio comunale sono presenti molti membri del comitato direttivo: il segretario Francesco Bove, il presidente Germano Tosetti, Angelo Buzio, Giovanni Bosco, Francesco Di Pasquale, Simona Legora, Nicoletta Mensi, Settimio Siepe e Enrico Terzago. Con un’età media di 37 anni, è un rinnovamento generazionale e dalla consistente presenza femminile (9 su 30). La testata è composta dai tre “big”: Paolo Ghiotto, capogruppo uscente, Francesco Bove, segretario locale del partito, e Germano Tosetti, già presidente dell’USSL71. La lista ospita anche alcuni non iscritti, quelli che un tempo si chiamavano “indipendenti”.
Il partito ha anche il supporto di una interessante e tecnicamente rilevante emittente radiofonica locale: Radio Gold International, acquistata a fine 1990. Una radio comunitaria, che si definisce progressista e di sinistra, non di partito, il cui artefice e conduttore è Renato Lopena. Il 30 giugno 1991 si svolge l’assemblea costituente della nuova associazione.
Tutto è concentrato e sistemato nel complesso “Valentia” di via Melgara: sala da ballo, sede del partito, circolo Palomar, con dibattiti e frequentatissimi concerti, e, più avanti, anche Radio Gold Valenza, che prima stava in via Mozart alla sezione PCI Emanuelli.
Nessuno prevede, però, il terremoto delle elezioni comunali del 12 maggio 1991, quando il neonato PDS ex PCI subisce una sberla perdendo 4 seggi, mentre la consueta DC contiene la perdita a un seggio e il modernista Polo Laico Socialista esce con le ossa rotte, perdendo per strada un terzo della sua forza (da 6 a 4 seggi). Tre penurie non dovrebbero confezionare una fortuna, ma DC e PDS, dissimulando un tonfo in un trionfo, definiscono un’alchimia che porta alla divisione delle poltrone e, per parecchi, anche alla lottizzazione delle coscienze: non si era mai vista una conversione più rapida.
Dopo decenni di baruffe, avvinti dal medesimo affetto, Il 3 luglio 1991 viene ufficializzata l’alleanza innaturale tra i mangiapreti e i baciapile con un insolito copione scritto. Per i primi due anni e mezzo, è eletto sindaco Mario Manenti, il primo sindaco democristiano della città e monopolizzatore di preferenze. Egli scadrà tipo yogurt e, successivamente, sarà sostituito nell’incarico dall’ex comunista Germano Tosetti, vice sindaco e assessore al bilancio nel primo scorcio. Sono uomini di partito, monumenti sacri che mangiano pane e politica sin dallo svezzamento e con il carisma e la competenza per condurre la città in modo innovativo. Ora sono portati in trionfo anche da coloro che li hanno odiati per decenni.
Incapaci di farsi da parte, diversi esponenti dei due partiti finora nemici si baciano e si abbracciano, si cercano e si lusingano, mentre ieri era tutto un insultarsi reciproco. La brancaleonica opposizione, o per lo meno di quel che ne resta, si arma di un’artiglieria di epiteti. Sarà che l’essere comici è una peculiarità spesso premiata o che quando si è disperati si diventa involontariamente comici.
A Valenza, dunque, accade un’anomala vicenda capace di lacerare il precedente quadro politico, con amori sorgivi, veri o presunti, ma che diventeranno la normalità nello scenario futuro di questo paese. Offrendo maggiori garanzie di stabilità e continuità, scoraggiando anche certe passate sgangherate convergenze parallele, dove ognuno cercava di turlupinare l’altro. Questo è un caso che farà scuola nel capire il realismo e il pragmatismo della politica futura, anticipando con più di vent’anni la svolta clericale della sinistra italiana.
Nel seggio i giovani valenzani hanno optato per la flotta centro destrorsa, con qualche simpatia per la Lega, mentre i pensionati, sempre più numerosi, affezionati alla memoria, hanno preferito in larga misura i partiti tinti di rosso.
Consiglio comunale eletto nel 1991
Grazie a questo momento sembra essere nata un’unità magica, una diade propizia all’intensificazione massima della sovranità. Ma, nel mese di novembre, la trasmissione televisiva “Profondo Nord” scompaginerà la vita della città dell’oro, lasciandola stordita e senza fiato, creando un cataclisma capace di trascinare la situazione politica e commerciale, con involuzioni e reazioni incontrollate, lesive per la dignità di questa città.
Da un’indagine fatta tra i sostenitori pidiessini valenzani del febbraio 1991 sui motivi per cui sono iscritti al partito, emergono i seguenti dati: il 3% risponde perché è il partito della classe operaia (5 anni prima era il 7%), il 15% perché è la forza più democratica (5 anni prima era il 20%), il 27% perché il partito vuole cambiare la società (nel 1986 era il 29%) e il 38% perché il partito lotta per ideali di giustizia e di uguaglianza (nel 1986 era il 28%).
Ma per tanti il comunismo ormai è solo un album di ricordi, poiché questa città, che per decenni ha votato compatta la sinistra, senza rischiare niente, nella fiduciosa attesa di una rivoluzione di falci, martelli e pugni alzati, negli anni ’90 non è più la stessa. Scomparirà anche quell’idea di una città divisa in due tra buoni e cattivi che tanto piaceva a qualcuno.
Post Scriptum. Potremmo infine aggiungere che, dopo aver letto questa impietosa sintesi, qualcuno si chiederà se chi scrive sia pro o contro al vecchio partitone rosso. Nessuno dei due, solo un modesto tentativo di raccontare quei momenti.