“Perfect Days”: l’oscurità e la luce
Wim Wenders nella tarda maturità riscopre un modo di fare cinema lieve, aereo, soffuso di poesia e malinconica bellezza, nel richiamo all'Ozu di "Viaggio a Tokio"
Torna all’Oriente – Wim Wenders – a quasi quarant’anni di distanza da Tokyo-Ga (1985), documentario di 92 minuti in cui – nel ventennale della sua scomparsa – ripercorre a ritroso le tracce lasciate dal maestro giapponese Yasujiro Ozu non solo nel tessuto impalpabile del cinema, ma anche in quello assai più materico della capitale nipponica, dove non a caso incontra un altro grande regista vagabondo, Werner Herzog.
In Perfect Days il cineasta tedesco – alle soglie degli ottant’anni (e non pare vero) – partendo dall’ipotesi di un nuovo documentario che gli viene commissionato come parte del progetto “The Tokyo Toilet”, atto alla riqualificazione di Shibuya, uno dei 23 quartieri speciali di Tokio, realizza – invece – un’opera narrativa simile a un canto elegiaco, una poesia che parla per immagini, influenzata nella concisione del linguaggio – a mezza strada fra realismo e visionarietà – dal metro stilistico di Ozu.
E la Tokyo di Wenders è anche quella del suo co-sceneggiatore – Takuma Takasaki – scrittore e art director di spot pubblicitari, così come è quella della moglie Donata, che si esplica nei sogni notturni enigmatici e virati in bianco e nero del protagonista Hirayama (il bravissimo Koji Yakusho, premiato a Cannes 2023 come miglior interprete maschile), addetto alla pulizia dei bagni pubblici, appassionato di fotografia (sotto questo aspetto alter-ego del regista, che in L’atto di vedere, Meltemi, 2002, sostiene «Credo che l’idea di un film debba nascere da un sogno vero e proprio, oppure da un sogno a occhi aperti») e di piantine embrionali, da far crescere, di libri che legge la sera prima di dormire (William Faulkner, Patricia Higsmith con il suo Urla d’amore, la scrittrice giapponese Aya Koda) e, soprattutto, di tanta musica.
Feeling Good
Si tratta, nello specifico, di sonorità degli anni Sessanta e Settanta (da Van Morrison a Patti Smith, al Lou Reed di quel “Perfect Day” che il titolo del film richiama non a caso, sino a The Animals e a Nina Simone con il brano “Feeling Good” ascoltato a tutto volume e canticchiato da Hirayama nel finale) che costituiscono il retroterra culturale e sentimentale di Wenders, la personale Arca di Noè per i giorni bui di pioggia. E non ci sono solo le letture, le canzoni, i sogni, le fotografie: c’è anche la bellezza e la caoticità di una Tokyo sospesa tra vecchio e nuovo, tra passato e futuro, con la Sky Tree su cui lo sguardo di Wenders e Hirayama indugiano a ogni tragitto in auto da casa al lavoro e ritorno. Simbolo di una città, svettante sullo sfondo del cielo come la torre della televisione o la statua della Vittoria sopra la Berlino del film-capolavoro del 1987, da cui occhieggiano gli angeli.
Un uomo tranquillo
E poi ci sono gli incontri, alcuni fortuiti, altri meno: un bambino che si è smarrito nel bagno pubblico dove Hirayama lavora, una ragazza che incrocia la sua traiettoria e il suo sguardo al parco, durante la pausa per il pranzo di ogni giorno, la proprietaria del ristorante dove l’uomo si va a godersi un po’ di buon cibo che canta la versione giapponese di “The House of the Rising Sun” dei The Animals, il suo ex marito che gioca a rincorrere le ombre, il collega scansafatiche con la fidanzata sui generis, una nipote scappata da casa, una sorella memoria malinconica di un passato irrisolto. Eppure, a dispetto di tutto, Hirayama resta un uomo tranquillo: Perfect Days non fa che ripercorrere i suoi giorni in apparenza uguali ma densi dell’ineffabile poesia di un orizzonte quotidiano, persino banale, vissuto con rara serenità, molti silenzi e infiniti sguardi sul mondo.
Komorebi
Ama il mondo, Hirayama; o, perlomeno, lo accetta così com’è, nella sua alternanza di bene e male, di luce e ombra. Il suo è un umanesimo discreto, gentile: riservato, come nel carattere di quest’uomo comune, che vive un’esistenza comune ma è felice di svegliarsi ogni mattina, di respirare l’aria fresca di una nuova giornata, di osservare la luce che filtra tra le foglie degli alberi. Un’azione semplice ma importante, che in Giappone viene racchiusa nella parola “Komorebi”: quel momento passeggero, fragile, sfuggente in cui riusciamo a cogliere un raggio di sole nell’oscurità. Il “Komorebi” suggella idealmente la chiusa di “Perfect Days”, opera della tarda maturità wendersiana, piccola perla di saggezza non paragonabile allo stratosferico dittico sugli angeli, eppure rilucente come il sorriso di Hirayama mentre va al lavoro in auto, ascoltando Nina Simone. «It’s a new dawn, It’s a new day, I’ts a new life for me».
Perfect Days (id.)
Origine: Giappone, Germania, 2023, 123′
Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Takuma Takasaki, Wim Wenders
Fotografia: Franz Lustig
Montaggio: Toni Froschhammer
Cast: Koji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Yumi Asô, Sayuri Ishikawa, Tomokazu Miura, Min Tanaka
Produzione: Master Mind, Wenders Images
Distribuzione: Lucky Red