Valenza e le guerre d’indipendenza italiane
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Il Risorgimento Italiano è una storia luttuosa, gloriosa, coraggiosa, ma anche brutale, bizzarra e perfino spregevole. L’idea che tutto si potesse risolvere assemblando le varie realtà territoriali del paese si rivelerà, purtroppo, un’illusione pericolosa. Le masse rurali e, in genere, le plebi cittadine resteranno ai margini del moto risorgimentale e non saranno concretamente integrate nello stato unitario.
Il 29 maggio 1843, re Carlo Alberto, succeduto a Carlo Felice nel 1831, e il suo seguito reale sono ricevuti dal sindaco Lorenzo De Cardenas, in carica dal 1840 al 1845; in carrozza, facendo un bagno di folla, fiero, superbo e un po’ commediante, il re visita la città, l’Ospedale Mauriziano, quello degli Incurabili, l’Opera Pia Pellizzari e le fortificazioni demolite verso il Po. Il monarca tornerà nel 1847 per porre la prima pietra del Pont d’fer, realizzato in pietra e laterizio e ultimato nel 1850; sarà adibito a uso esclusivo ferroviario fino al 1887.
Nel febbraio del 1848, quando il “Re Tentenna” Carlo Alberto preannuncia la Costituzione (Statuto Albertino), l’entusiasmo dei valenzani è forte: le persone scendono in strada con le coccarde tricolori, suonano le campane, cantano e festeggiano e una delegazione composta dal sindaco Menada e dai consiglieri Cassolo e Compiano si reca a Torino per la festa nazionale. Durante i festeggiamenti di Valenza per lo statuto, giunge la notizia dell’insurrezione di Milano con la cacciata degli austriaci. Prontamente, toccando vette quasi surreali, il 30 marzo 1848, il consiglio comunale costituisce una rappresentanza che andrà a esprimere la solidarietà della città al governo provvisorio di Milano insorta. La delegazione è composta dal sindaco Gerolamo Menada come guardia d’onore, dal consigliere Alessandro Cassolo, dal conte Lorenzo De Cardenas e dall’avvocato Alessandro Scapitta, un gruppetto di fedeli allenati nella fucina valenzana di agitati costituzionalisti piuttosto ribelli. Queste vicende s’intrecciano con la rivoluzione più estesa che fa barcollare mezza Europa, il Quarantotto, e con la Prima Guerra d’Indipendenza che il Piemonte combatte e perde contro l’Austria.
Mentre infuria la tempesta, senza un criterio logico, localmente viene organizzato un corpo di volontari da mandare in Lombardia, che entra a Pavia salutato dal grido “Viva i valenzani”. La squadra è comandata da Giuseppe De Cardenas, dal sottocomandante Venanzio Marchese e dal sergente Agostino Galeazzo, pronti alla beatificazione. I militi sono i seguenti: Aloetti, Angeleri, Baiardi, Baiardino, Battaglieri, Bisone, Ferrari-Trecate, Gambero, Garberoglio, Gervaso, Maggi, Marchese, Merlani, Odino, Piazza, Poggio, Porta, Raselli, Repossi, Reverdy e Scorcione. Ma in questi anni la massa valenzana, che già ne ha viste di tutti i colori, è quasi incapace di comprendere ciò che sta accadendo.
Dopo la sconfitta di Custoza del 22-27 luglio 1848, Valenza accoglie i feriti, gli sbandati e gli infermi nel complesso degradato di San Francesco, dove oggi c’è piazza Verdi, mentre i feriti gravi sono ricoverati all’Ospedale Mauriziano in via Pellizzari. Reduce dalla disfatta di Custoza e dalla caduta di Milano, il 12 agosto 1848 re Carlo Alberto sosta a Valenza. L’accoglienza è calorosa, al contrario di ciò che ha lasciato nella patriottica e ora abbandonata Milano. Solo un deluso gruppo locale del Partito democratico si scaglia contro i generali che hanno condotto la guerra. Più che una guerra d’indipendenza, però, è apparsa come un conflitto tra dinastie di sapore settecentesco, con troppi morti e un re piemontese un po’ fuori di testa, indeciso e preoccupato solo che Milano non si proclamasse repubblica e che la guerra non diventasse una rivoluzione.
Al termine delle ostilità, dopo la sconfitta di Novara del marzo del 1849 e l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del figlio Vittorio Emanuele II, tra noncuranza e disordine, Valenza conosce nuovamente l’occupazione austriaca, in tutta la sua durezza, fino al mese di agosto del 1849, con un processo ineluttabile di degradazione di alcuni valori patriottici. È la fase più critica della storia risorgimentale valenzana, con quel poco di credibilità residua.
A metà Ottocento, I democratici valenzani, che vorrebbero cambiare tutto, credono di essere forti in mezzo al popolo, senza capire che i contadini hanno i due soliti idoli: il papa e il re. La locale destra reazionaria e clericale, che non vorrebbe cambiare nulla ma solo abolire lo statuto del Regno di Sardegna, emanato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848 quale legge fondamentale, perpetua e irrevocabile della elitaria monarchia, fantastica il ritorno all’assolutismo o, in alternativa, al suffragio universale per soli uomini, perché è impensabile che le donne votino. Negli anni contigui, l’estrema sinistra valenzana resta repubblicana, pervasa di protosocialismo e di libero pensiero, arrendevole a metodi cospirativi e sovversivi; sembra essersi fermata alla prima fase della Rivoluzione Francese con una patina di idealismo romantico estraneo al fervore unitario.
L’impianto elettorale dell’epoca porta al voto solo il 2% della popolazione residente, cosa che oggi ci stupirebbe. Contrariamente, il Senato del Regno non è elettivo, ma i suoi membri sono nominati dal re. Il valenzano De Cardenas conte Lorenzo, il vero demiurgo, sgradito e conteso al tempo stesso, viene nominato senatore il 4 aprile 1848 e resterà tale, alla stregua di un oracolo, fino alla sua morte, nel 1863. Il consiglio comunale, invece, viene votato da elettori tra i maggiori contribuenti e dai cittadini più sapienti. Il sindaco è scelto dal re tra gli eletti. I primi cittadini che si sono avvicendati nel corso del tempo sono i seguenti: Gerolamo Menada, 1848; Alessandro Cassolo, 1848; Giovanni Terraggio, 1849; Alessandro Cassolo, 1850; Angelo Foresti, 1858; Pietro Paolo Camasio, 1860; Felice Cassolo, 1867.
Nel 1848, nel collegio elettorale di Valenza, costituito da circa 400 elettori, viene eletto deputato Bartolomeo Campora; nel 1849, Giacomo Pera; nel 1850, nel 1853 e nel 1857, Maurizio Farina; nel 1860 e nel 1861, Pier Carlo Boggio. Pur conculcando diritti e dissensi, il Regno sabaudo è l’unico stato italiano che abbia un’autentica libertà di stampa: nel 1858-1859, infatti, a Valenza si stampa Bollente e Po, giornale settimanale letterario, agricolo, industriale, ecc. dell’Alto Monferrato e Lomellina.
Valenza, che ha circa ottomila abitanti, vive con apprensione lo scenario del futuro, sa di aver sempre percorso una china pericolosa indipendentemente dalla sua volontà, di essere stata trasfigurata di continuo poiché coinvolta da secoli nella spartizione dei confini a causa della sua collocazione geografica. Il fiume è stato il suo vero riparo, il suo soffio vitale, un guscio che l’ha protetta sovente.
Negli anni 1853-1855, la città è in mano a una coalizione egemonica non molto entusiasta del governo anticlericale piemontese guidato da Cavour. Le due opposizioni più estreme sono la repubblicana a sinistra e la clericale a destra. Nel rondò moderato clericale, che ruota attorno a quell’ape regina che è il sindaco Alessandro Cassolo, capo dell’amministrazione comunale e funzionario di Stato che, sebbene denigrato, alcuni provvedimenti utili li ha presi, volteggiano il giudice Stanislao Annovazzi, un perfetto reazionario, il parroco Domenico Rossi, un esponente del clero liberale lungimirante difensore di principi etico-morali, uno spirito illuminato e saggio ma pronto ad indossare tutti i pregiudizi, il direttore dell’Ospedale Mauriziano Luigi Sassi, quello degli Incurabili Alessandro Pastore e l’avvocato Francesco Cagni, tutte permalose vecchie volpi e solo parzialmente seguaci del centro-sinistra di Rattazzi. Altri importanti e ondivaghi personaggi politici locali, per ora collocati nella sinistra democratica moderata, quasi un centrodestra, caratterizzati da una forte spinta ideale e da un indomito fervore politico di potere, ma che, come i generali, parlano con i punti esclamativi, sono i seguenti: il conte Girolamo De Cardenas, il medico Felice Bocca, il consigliere Stefano Pastore e il segretario comunale avvocato Luigi Quaglia. Ma il popolo valenzano che fa? Generalmente alza le spalle e fa finta di niente, poiché ha altri problemi vitali.
Valenza invia un attestato di patria benemerenza ai prodi soldati che combattono in Crimea contro la Russia (1855-1856), una dura campagna di guerra voluta dal primo ministro conte di Cavour per ottenere le grazie franco-inglesi e per potersi sedere a pieno titolo al tavolo della pace di Parigi. Questa guerra, che avrà conseguenze decisive, benché indirette, sul Risorgimento italiano, vede coinvolto un corpo di spedizione piemontese di 18.000 uomini, tra cui diversi valenzani, falcidiati più dal colera che dai fucili russi. Nella Guerra di Crimea, cadono i valenzani Gerolamo Chiesa, Gaspare Cavallero e Carlo Antonio Giordano. Sono andati a immolarsi per affermare al cospetto di tutta l’Europa il diritto dell’Italia a costituirsi in nazione, anche se il nodo delle contraddizioni si aggroviglia sempre più.
L’alba del 1859 è cupa e nebbiosa in ogni parte d’Italia. A Roma, vi è un fermento contro il governo pontificio, che si regge a mala pena. A Napoli, il grido del popolo sale alla reggia di re Borbone, la cui potenza d’un tempo barcolla. I duchi e gli arciduchi nell’Italia del centro avvertono la ribellione popolare che cresce. L’opera costante dei carbonari, impastata di grandi passioni, penetra, affascina e conquista gli animi e i cervelli. Gran parte degli italiani sono però estranei al fervore unitario. Questo è il terreno arroventato d’Italia alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza.
Anche a Valenza sale il profumo di belligeranza e molti valenzani partecipano allo stesso anelito con solidarietà spirituale e politica. Il 10 gennaio 1859, a Torino, Re Vittorio Emanuele II inaugura la nuova legislatura dinanzi ai deputati e ai senatori del Parlamento sardo-piemontese, con un discorso audace, in cui vi compare la frase incisiva e chiara: “Non siamo insensibili al grido di dolore, che da tante parti d’Italia si leva verso di noi “.
Con un fremito di riscossa Il giornale locale Avvisatore alessandrino, il 26 febbraio 1859, scrive queste incoraggianti parole: “La guerra che si intraprenderà, dobbiamo ritenere, che è nazionale pei lombardo-veneti, pei romani, pei siciliani, napoletani, toscani, modenesi, parmigiani, non deve cessare d’esser tale pel Piemonte: quindi se quelli si commuovono apertamente, se mostrano quello che desiderano e che vogliono, perché dai piemontesi non si farà altrettanto?”. Per gli agitati sostenitori locali non è certo un giorno da dimenticare, quello del 13 aprile 1859, quando a Valenza si sente il rombo del cannone della Cittadella di Alessandria che sta facendo le esercitazioni preparatorie dell’imminente guerra.
Il 23 aprile 1859, viene consegnato a Cavour l’ultimatum dell’Austria: è guerra. Il 27 aprile, all’aprirsi delle ostilità, la 2ª Armata austriaca si trova concentrata con i suoi 5 corpi fra Bereguardo e Pavia e, a fronteggiarla, ci sono solo 6 divisioni piemontesi, con il grosso delle truppe ad Alessandria e, soprattutto, a Valenza, sulla sponda destra del Po.
La vera Seconda Guerra d’Indipendenza, combattuta tra il 29 aprile 1859 e l’11 luglio 1859, inizia, quindi, da queste parti, sul Pont d’fer. Valenza è una delle linee strategiche difensive del Piemonte, la frontiera di guerra. Vengono costruite difese a protezione del ponte ferroviario, mentre il ponte stradale di barche, collocato nell’attuale regione Vecchio Porto, è difeso da pezzi di artiglieria. Tutta la riva destra del Po è occupata da 35mila soldati piemontesi, fronteggiati, sul lato sinistro, da circa 100mila austriaci, che tentano invano di passare il fiume. Gran parte della popolazione, angosciata, ha lasciato la città e si è accampata al di fuori delle mura. Gli edifici sono stati trasformati in caserme e le chiese in stalle e magazzini. Per fronteggiare il nemico, in attesa delle truppe francesi, sono dislocate in città la 16ª e la 18ª batteria di truppe sarde e il 12° reggimento fanteria Brigata Casale, mentre più a monte c’è l’8° reggimento bersaglieri.
Il 3 maggio 1859, gli austriaci, al comando del generale Giulaj, presa posizione a Terranova, operano una forte ricognizione offensiva sulla sponda sinistra del Po, con tentativo di passaggio sulla riva destra vicino a Frassineto, aggiungendo al furore delle artiglierie un fittissimo fuoco di moschetteria e di razzi contro gli avamposti piemontesi, che respingono l’attacco.
Il 4 maggio 1859, gli austriaci bombardano Valenza con batterie piazzate sul ponte ferroviario del Po. I nostri bersaglieri e i nostri artiglieri contrattaccano e riprendono il ponte, scacciando gli austriaci, che, prima di allontanarsi, rompono le porte, le finestre e i solai dei due casotti che si trovano all’estremità del ponte e fanno esplodere un pilone e le due arcate; in questa occasione, perdono la vita il capitano d’artiglieria Roberto Roberti, colpito in fronte da un cecchino, e il caporale Albini. Seguono altri danneggiamenti a boschi, prati, al ponte di barche e ai mulini sul fiume.
Il 14 maggio, alle ore sedici, l’Imperatore Napoleone III arriva ad Alessandria, alla stazione ferroviaria; a cavallo, lento e maestoso, si dirige al palazzo reale, oggi della Prefettura. Dalle finestre, fazzoletti svolazzanti e fiori e, per le vie, bandiere, archi e vasi fioriti. In piazzetta della Lega si ferma, si scopre il capo e ammira il busto marmoreo a Napoleone I, monumento che qualche tempo dopo scomparirà. Al palazzo reale, improvvisamente, in incognito, arriva anche il re Vittorio Emanuele II, accolto e acclamato mielosamente da tutte le autorità.
Il 15 maggio 1859, Napoleone III, che ha assunto il comando dell’esercito franco-piemontese, arriva a Valenza, dove si trova la divisione del generale Bourbaki. Il quartier generale piemontese con Vittorio Emanuele II è a San Salvatore nella cascina Pona dal 1° maggio, in attesa dell’esercito francese, e poi, dall’11 maggio, a Occimiano nella residenza del marchese Da Passano e con Napoleone III al castello di Giarole. Nella cascina Pona, l’8 maggio 1959, si è tenuto un convegno notturno con l’indemoniato Garibaldi, al quale Vittorio Emanuele ha dato ampia facoltà d’azione insieme ai suoi cacciatori delle Alpi.
Nel periodo che segue, questa guerra fatta di sangue e di bugie si allontana dalla zona e gli austriaci sono sconfitti a Magenta e a Solferino. Ma le speranze di Vittorio Emanuele II e del conte Benso di cacciare definitivamente gli austriaci dall’Italia sono vanificate dall’alleato Napoleone III, che, con un trasformismo furbesco, pone uno stop ai combattimenti. L’armistizio di Villafranca di Verona, dell’11 luglio 1859, terreno neutrale, concluso dai due imperatori, Napoleone III di Francia e Francesco Giuseppe I d’Austria, pone le premesse per la fine della Seconda guerra d’indipendenza: l’Austria cede ai piemontesi solo la Lombardia e conserva il Veneto. Un sogno che si stava per realizzare svanisce con una velocità singolare, ammesso che sia mai esistito se non come stolta retorica.
All’insaputa di Vittorio Emanuele II, Napoleone III ha desiderato troncare una campagna fino ad allora più che vittoriosa e tornare al di là delle Alpi. Voleva concludere a tutti i costi una pace con l’Austria, anche perché lo spingeva la diplomazia della Russia, suggerendo, come mediatrice di pace, l’Inghilterra. A Villafranca, nella casa di Gandini Morelli, si stabilirono i patti della imminente pace, poi conclusi a Zurigo il 10 novembre. I patti furono i seguenti: 1) formazione di una confederazione italiana con a capo il papa; 2) cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia, che l’avrebbe ceduta a Vittorio Emanuele. Erano escluse le fortezze del quadrilatero di Peschiera, Verona, Mantova e Legnano; 3) il Veneto restava all’Austria, ma entrava nella confederazione italiana; 4) restaurazione del granducato di Toscana e del ducato di Modena; 5) suggerimento dell’Austria e della Francia al papa d’introdurre riforme nello Stato pontificio.
Tutto questo, accadeva quando Garibaldi era vittorioso e quasi sopra Trento; quando il granduca Leopoldo II era scappato da Modena, la duchessa Maria Luisa da Parma e il cardinale rappresentante del papa da Bologna; quando Bettino Ricasoli, in nome d’Italia, era acclamato dittatore della Toscana e Luigi Carlo Farini dell’Emilia, l’una e l’altra regione strette in una lega militare, affidata a Garibaldi.
Il popolo valenzano, stupefatto dalla contorsione di tali avvenimenti, ha un senso di giusta rivolta e dichiara traditore e spergiuro l’imperatore di Francia. In alcune vetrine, si espone il quadro di Felice Orsini, che, il 14 gennaio 1858, aveva attentato alla vita di Napoleone III. Cavour, in crisi coniugale con il re, per protestare contro l’armistizio, dà le dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri. Tutto il sangue sparso si considera un inutile sacrificio. Si è sollevata e lusingata una nazione con le più seducenti speranze, per poi lasciarla in condizioni peggiori, esposta a più gravi pericoli e, forse, alla guerra civile: a Valenza si impreca contro questa grave scelleratezza con un misto di amarezza e incredulità, anche se l’inglobamento della Lombardia apre nuovi orizzonti per l’economia cittadina. Ben presto, però, ostinati a tenere gli occhi chiusi su quello che succede, della patria e dei suoi valori non importa più nulla a nessuno.
Nella feroce battaglia di San Martino, combattuta il 24 giugno 1859 vicino al Lago di Garda e conclusiva della Seconda Guerra di Indipendenza, cadono i valenzani Massimo Barbero, Pietro Ferraris, il capitano Luigi Mario, Giuseppe Annaratone, Luigi Garavelli e Giovanni Baudagni. In quella di Magenta Giovanni Cavalli e, a Palestro, Giovanni Francesco Beccaria. Senza elogi, questi uomini hanno offerto se stessi per la patria e per la libertà, un martirio che merita onore, che è un valore assoluto.
L’unificazione d’Italia, sotto la dinastia dei Savoia, viene raggiunta un anno dopo con l’impresa garibaldina dei Mille nel meridione (ben presto invitati a togliere il disturbo, un aspetto singolare e quasi grottesco, davvero un bel riconoscimento) contro un re bigotto, Ferdinando II, di uno stato arretrato dalla burocrazia corrotta e negligente, nell’occasione mollato dagli inglesi. È un’annessione frettolosa, che, in modo paradossale, alimenterà rivolte e brigantaggio, regalandoci un revanscismo antirisorgimentale con un lamento permanente e la meridionalizzazione dell’apparato statale italiano negli anni a venire.
Nelle file garibaldine, con impegno incessante, hanno militato il diciassettenne valenzano Giuseppe Camasio e il ventunenne Angelo Clerici. Ottengono la medaglia d’argento al valor militare risorgimentale i seguenti valenzani: Gaspare Menada, il luogotenente Persighini, Massimo Giovanni Bonzano, Giovanni Ferraris, Stefano Lingua, Giuseppe Zeme e Carlo Calvi.
Il nostro Risorgimento, che è costato agli italiani meno vittime della recente pandemia, si conclude nel 1866 con la Terza Guerra d’Indipendenza, in cui, pur avendo fatto una brutta figura a Custoza e a Lissa, la vittoria dei prussiani sugli austriaci ci permette di ottenere il Veneto a indennizzo. Il deputato di Valenza Pier Carlo Boggio, ufficiale della Guardia Nazionale, e il caporale valenzano Carlo Bonzano cadono gloriosamente durante la famosa battaglia navale di Lissa. I valenzani Carlo Cavallero, Giuseppe Mazza e Filippo Torra ottengono la medaglia d’argento al valore militare per la campagna del 1866.
Se sul percorso del passionale ma gentiluomo Vittorio Emanuele II, dell’ardimentoso Garibaldi, che desiderava un’autocrazia monarchica o fare il dittatore, o del demonio opportunista Gran Conte Cavour, che comprendeva solo le logiche di proprietà per lui sacre, fosse apparso qualche funambolo scafato d’oggi, non ci sarebbe stata l’Unità d’Italia. Nessuno di loro, incluso il fuoriclasse Mazzini, aveva la minima inclinazione sociale, che suona un po’ come un’autenticità iconoclasta contaminata da compromessi. Ma, oltre a fare l’Italia, qualche opportunista sussiegoso ha saputo badare bene anche agli affari propri, uscendone impunito, e ben presto il patriottismo risorgimentale, che non era solo esaltazione e subordinazione, sarà snaturato dalla retorica sabauda.
È la solita vecchia storia che si replica, cambiano i protagonisti, mutano gli sfondi, ma il canovaccio è sempre lo stesso. Anche se certi paragoni storici sono spesso arbitrari.