Eternit: «Schmidheiny condannato a 9 anni e mezzo. È giustizia questa?»
Cronaca
Beatrice Iato  
25 Agosto 2025
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17:00 Logo Newsguard
Il processo

Eternit: «Schmidheiny condannato a 9 anni e mezzo. È giustizia questa?»

Le motivazioni della sentenza in appello saranno depositate il prossimo 14 ottobre. Ma c'è chi considera la condanna troppo lieve

CASALE – Sedici anni di processi, quasi quattrocento morti e una condanna che conta appena nove anni e mezzo. Tirando le somme, al processo Eternit Bis, c’è oggi chi si chiede se si possa ancora parlare di giustizia di fronte a una sentenza come quella dell’aprile scorso della Corte d’Assise d’Appello di Torino, che ha condannato Stephan Schmidheiny a nove anni e sei mesi di reclusione per omicidio colposo plurimo aggravato.

Le motivazioni di tale decisione della Corte saranno depositate il prossimo 14 ottobre, dopo la proroga di luglio: una lunga attesa che, ovviamente, lascia spazio ai dubbi, alle considerazioni amare. «Se questo è il risultato, dopo tutti questi anni e i morti per l’amianto a Casale che aumentano, che senso ha continuare a chiedere giustizia?».

Un problema educativo

A parlare è solo una delle tante voci ormai disilluse, nascoste nelle retrovie della lotta per la giustizia Eternit. E suona quasi comprensibile, se si pensa che all’ultimo processo l’ex Ceo dell’azienda era imputato per l’omicidio di ben 392 vittime dell’amianto casalese, affette da mesotelioma pleurico, nome di quel tumore che a Casale suona sempre come una condanna a morte.

Eppure, anche quando il verdetto lascia l’amaro in bocca, c’è chi non perde la speranza e crede, soprattutto, in un senso più profondo della parola giustizia: incrinare la cortina di silenzio. Perché «la cosa importante è che la Corte riconosca la colpevolezza dell’imputato, anche se il verdetto non è quello che ci aspettavamo» come ha commentato Bruno Pesce, coordinatore alla sanità di Afeva, all’alba della sentenza.

D’altra parte, è un concetto che spiegava anche Simon Wiesenthal: «Non è solo un’esigenza di giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti».

All’epoca l’architetto e scrittore di origine ebrea si riferiva al nazifascismo, alla Shoah e in particolare al caso di un campo di prigionia a Trieste, la Risiera di San Sabba. A due imputati per la precisione, uno morto e uno che non ha mai scontato la sua pena, nonostante la condanna. Una storia di omicidi brutali, silenziosi e davanti a cui per lungo tempo la stessa giustizia ha voltato lo sguardo.

Una storia che, nonostante la lontananza non solo geografica, non suona nuova a un casalese che ha seguito il processo Eternit fin dall’ormai lontano 2009. Data che segnò l’inizio del primo maxi processo Eternit per disastro ambientale, con alla sbarra lo stesso Stephan Schmidheiny insieme al magnate belga Louis De Cartier, deceduto durante il procedimento, e poi risoltosi con sì il riconoscimento della colpa, ma ormai in prescrizione.

Per non dimenticare

Insomma, due mondi molto diversi, che si sfiorano per piccole coincidenze, ma abbastanza da aprire le porte a una riflessione sul significato di giustizia. Per ricordarci che ancora oggi, al processo Eternit, il punto è che una Corte riconosca le colpe di un disastro a chi quel disastro l’ha provocato.

Che non ci si dimentichi dei quasi 400 morti che a Casale sono stati (e più di 3000) e di tutte quelle famiglie che, per le vittime, lottano ogni giorno. Una sentenza verbalizzata e accessibile a tutti, che dica “sì, c’è sempre stato un colpevole”. Perché, alla fine, non sono i numeri di anni a contare, ma il riconoscimento della colpa, che comunque in eterno ci aiuta a ricordare la vicenda, il disastro e il dolore, per far sì che non si ripeta. Un valore che perdura anche se poi, come si suol dire, dentro non ci finisce nessuno.

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